feedFacebookTwitterlinkedinGoogle+

infoSOStenibile

Altro che mimose

Altro che mimose

Le donne in politica a livello internazionale affrontano un mondo ostile e giudicante. Serve più collaborazione, a tutti i livelli, in tutte le sfere

È celebre la frase con cui il presidente francese Charles de Gaulle liquidò la filosofa e attivista Simone Weil: «Elle est folle», disse. Per molto tempo dopo la sua morte, Weil ha continuato a essere oggetto di disprezzo e adorazione, di benevolenza e di scherno. Sembra sia questo il destino delle donne influenti anche oggi, a più di settant’anni dalla morte della filosofa. Quelle che prima erano provocazioni, se non insulti verbali, oggi sono spesso confezionate in post o tweet, ma la sostanza è la stessa visto che sempre di parole violente si tratta.

È innegabile che, considerando la struttura delle diverse sfere in cui la società si trova a operare, dall’economia, alla finanza passando per l’imprenditoria, il giornalismo e approdando alla politica, sia l’impronta maschile a prevalere, non solo per la maggiore presenza di uomini, ma anche per come i diversi sistemi sociali, che quotidianamente viviamo, sono strutturati. Certo, se ci spostiamo in ambiti diversi come la musica, la letteratura, il sociale, la scienza e l’arte, la varietà di genere è sicuramente più accentuata. Questo porta alla -forse scontata- riflessione che più la donna si avvicina a zone di potere e influenza a livello globale, più la sua presenza è ostacolata. Non a caso le donne che riescono a realizzarsi maggiormente a livello personale e professionale sono spesso imprenditrici di se stesse, coloro che riescono a dare un’importanza economica o un’influenza politica al proprio settore di appartenenza. Sono molti i casi di donne giovani che sono state in grado di reinventarsi professionalmente, creando nuovi brand, aprendo scuole di cucina, mettendosi in società con altre, tuffandosi nel mondo dell’educazione con occhi diversi o adottando la sostenibilità come stile di vita.

Quando però non si parla d’imprenditrici autonome, ma di donne alla ricerca del proprio posto in un sistema economico e politico già prestabilito e irrigidito nella propria obsoleta struttura, la prospettiva è molto meno rosea.

Le donne in politica

La presenza di donne in politica, sia a livello nazionale sia internazionale è sempre una sfida, un obiettivo faticosamente raggiunto o ancora da raggiungere. Secondo l’ultimo report (2012) dell’Inter-Parliamentary Union (Ipu) and UN Women, che mostra la situazione delle donne in politica a livello internazionale, sono 17 i Paesi con donne a capo del governo, dello stato o di entrambi: il numero è raddoppiato rispetto al 2005 e questo dato fa ben sperare. La media mondiale di donne in parlamento nel 2011 era di 19.5%, uno 0.5 di punti percentuale in più rispetto all’anno precedente. La media europea del 22.3% è raggiunta grazie soprattutto ai Paesi nordici, che soli si distinguono a livello internazionale per una media del 42% di donne parlamentari, con Svezia e Finlandia tra le prime dieci classificate.

Nonostante i dati mostrino un cauto progresso, le parole di Anders B. Johnsson, segretario generale Ipu fanno riflettere: «Oggi nel mondo le donne parlamentari sono meno di una su cinque; si tratta di dati preoccupanti, non più giustificabili all’attuale livello di sviluppo storico-sociale; il problema più grave è che nella maggior parte dei casi la volontà politica di apportare un cambiamento reale è ostacolata, se non desolatamente assente».

Le donne sono ancora raffigurate e spesso si raffigurano esse stesse alternativamente come pioniere in un mondo ostile, vittime incomprese di un sistema malato, vincenti yuppie in gonnella inevitabilmente ostili verso le possibili rivali. La realtà è che spesso le donne a qualsiasi livello sociale e professionale sono semplicemente sole e, di conseguenza, diffidenti.

Dalla Gran Bretagna all’Afghanistan

È interessante vedere come anche nella terra del politically correct, la Gran Bretagna, in politica le donne debbano scontrarsi con giochetti sessisti e sottili agghiaccianti ironie da parte dei colleghi. L’ultimo caso è quello della parlamentare del partito conservatore Ann McIntosh che, vittima di battute di cattivo gusto, messaggi ostili e commenti maliziosi da parte del suo stesso partito, è stata poi esclusa dai candidati del suo gruppo alla corsa per le prossime elezioni generali. Dopo questo fatto, il domenicale inglese “Observer” ha voluto indagare a livello internazionale le difficoltà che le donne incontrano nel cercare di penetrare le élite politiche dominate dal genere maschile; i risultati invitano sicuramente a una riflessione al di là dagli stereotipi con cui spesso il tema è trattato.

Sembra quasi che le politiche britanniche abbiano vita facile se confrontate con le colleghe di Paesi più ostili, che quotidianamente devono affrontare minacce di morte: il pensiero, tra le altre, va alla parlamentare afghana Fawzia Koofi, la cui stessa presenza nella vita pubblica offende mortalmente i Talebani al potere. La sua lotta quotidiana è quella per la presidenza o meglio quella per un Paese in cui le figlie possano essere rispettate in quanto esseri umani: «L’Afghanistan della gente è pronto per un cambiamento perché ha sofferto molto la discriminazione e l’ingiustizia -afferma Koofi- il problema è che ogni passo in avanti ne implica cento indietro, per il semplice fatto che sei donna».

Turchia,Sudafrica e Italia

Safak Pavey rappresenta il partito d’opposizione repubblicano a Istanbul. È stata la prima donna disabile a essere ammessa in parlamento e ora è più preoccupata che mai rispetto ai temi del dibattito politico turco: «È conveniente che le donne incinte camminino per le strade? Ragazzi e ragazze possono stare nella stessa classe?

Queste sono le domande che i nostri politici si pongono! È desolante». La classe dirigente è più concentrata a sentenziare come le donne dovrebbero vestirsi e atteggiarsi e soprattutto è ossessionata dal concetto di castità: «Puoi essere corrotto o anche un’omicida, ma niente è peggio che essere sospettata di comportamenti sessualmente immorali, non ci sono mezzi termini, si viene linciate», afferma Pavey.

Se portare i pantaloni è considerato moralmente oltraggioso in Turchia, alla parlamentare sud-africana Lindiwe Mazibuko è stato richiesto di «spiegare pubblicamente che cosa avesse fatto ai capelli». Non giustifichiamoci dietro la falsa coscienza che umiliazioni di questo genere sarebbero intollerabili nelle nostre educate società occidentali, perché nei fatti non è così. Dietro la vigliacca scusa della goliardia e della satira all’italiana, sono tante le politiche che hanno dovuto subire commenti di cattivo gusto anche nel nostro Paese: Emma Bonino, Cécile Kyenge e Michela Murgia, solo per citarne alcune. Con i social media, gli insulti e le minacce vengono schiaffati in faccia senza rimorsi, incapsulati in tweet e post. Il fenomeno è diffuso globalmente e non colpisce solo le politiche: Amanda Hess, giornalista della pubblicazione statunitense “Pacific Standard” denuncia gli insulti, le aggressioni verbali, le minacce di morte e stupro che tante donne come lei subiscono ogni giorno da molestatori anonimi, che a causa della loro “virtualità” sfuggono alla giustizia.

I Paesi Nordici così vicini, così lontani
 

Che dire poi di tutte quelle donne, politiche e non, per cui la maternità diventa un problema? Orari di lavoro imprevedibili, chiamate all’ultimo minuto, intimidazioni da parte dei superiori –spesso uomini– e umiliazioni per una presunta inefficienza, compromessi costanti tra la propria ambizione professionale e i sensi di colpa come madre, rischiano di rovinare i rapporti familiari e torturare coscienza e sentimenti individuali.

Jo Swinson, neo mamma e ministro delle Pari Opportunità nel partito liberale inglese è solo una delle tante donne a combattere affinché siano rispettati i tempi di allattamento e sia possibile portare i pargoli sul posto di lavoro con le relative facilitazioni, come accade nei Paesi nordici, senza il peso del giudizio costante sul proprio operato. La Norvegia con i suoi congedi di paternità obbligatori, congedi di maternità, incentivi, programmi di rientro post-maternità e l’Islanda con il suo diritto legale di tornare al lavoro dopo la nascita del figlio e un sistema capillare di asili nido e scuole materne offerto da parte dei principali comuni, sembrano utopie, lontane isole di felicità, nonostante la relativa vicinanza geografica.

Forse però, invece di lamentarci di una politica inconcludente e di sentirci vittime di un sistema sociale marcio, dovremmo quotidianamente metterci in questione: che cosa faccio io, nel mio piccolo per cambiare le cose? Sarebbe il caso di ripartire proprio da quella solitudine che genera sospetto e diffidenza. Quanto sono forti un gruppo di mamme che insieme possano combattere per una città a portata di bambino? Quanto sono potenti le politiche che al battibecco sostituiscono la critica costruttiva? Quanto sono vincenti le colleghe che all’arrivismo individuale sostituiscono il boicottaggio collettivo di un sistema datato di minacce codarde?

L’8 Marzo non è solo mimose e auguri, ma un appuntamento annuale che ricorda quanto ancora ci sia da lavorare per cambiare le cose, a tutti i livelli, in tutte le sfere, con la consapevolezza che parità non è essere temuta e rispettata come un uomo; parità è essere riconosciuta e rispettata come donna e come persona, unica e preziosa.

Mara D’Arcangelo

Marzo 2014

Articoli Correlati

Incontri, scambi, momenti formativi e ludici hanno arricchito la nuova edizione della...
Dal 21 giugno al 12 luglio torna il festival organizzato da Legambiente Bergamo che...
Il recente libro di Elena Granata evidenzia come le donne abbiano sempre maturato un...
Al Polaresco l’1 e il 2 giugno un fine settimana dedicato ad ambiente, natura e cura del...