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Dario Fo e il maestro che fu

Dario Fo e il maestro che fu

A nove anni dal Premio Nobel ci lascia uno dei più grandi artisti italiani del Novecento

«Perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi»: è con questa motivazione che nel 1997 l’Accademia Svedese conferì il Nobel per la letteratura a Dario Fo.

A nove anni da allora – il destino così ha voluto – proprio nel giorno dell’assegnazione del Premio per l’edizione 2016, la triste notizia della sua scomparsa: ricoverato a Milano da diversi giorni, il maestro ci ha lasciati il 13 ottobre a causa di un’insufficienza respiratoria, novant’anni compiuti da poco.

Con la sua morte si spegne una delle ultime stelle del Novecento nostrano, un artista estremamente eclettico che la storia contemporanea d’Italia l’ha attraversata tutta a passi lunghi e ben distesi, passando per il teatro, la letteratura, il cinema, la radio, la televisione e la pittura.

Fo non se ne va certo in sordina, visto il capitale culturale che ci lascia in eredità; non solo culturale, ma anche civile, considerando la critica sociale e politica che da sempre ha caratterizzato la sua opera. Censurato dalla Rai democristiana, lontano dal “teatro borghese” – così lo chiamava Fo - recitava le sue commedie nelle piazze, nelle fabbriche e nelle Case del Popolo, dove incontrava il pubblico meno abbiente, che poteva così assistere a uno spettacolo di satira, divertente quanto tagliente, senza eguali.

Un commediante d’arte...

Si improvvisava un commediante d’arte, Dario Fo, e lo era, in effetti, in tutto e per tutto; ce lo ricordiamo ancora, con quel fare giullaresco che appartiene ai secoli passati, saltellare da una parte all’altra del palco, rielaborando testi antichi in uno strano miscuglio parodico di idiomi reali e onomatopee, il cosiddetto “grammelot”, una lingua che giusto Dario Fo poteva recitare.

Risale al 1969 la prima edizione di “Mistero buffo”, una “giullarata popolare” composta da monologhi di argomento biblico (e non solo, nelle centinaia di edizioni successive) che ha fatto divertire, e allo stesso tempo riflettere, una generazione intera. In questo e in gran parte dei suoi spettacoli, Fo si accompagnava alla compagna, d’arte e di vita, Franca Rame, venuta a mancare tre anni fa.

Persino in quell’occasione, ai funerali della moglie, Fo non perse mai il sorriso, se non per qualche secondo, come se la maschera del commediante proprio non gli venisse via. I capelli grigi, che grigi lo erano da tempi immemori, gli occhi vispi e accesi, i denti dell’arcata superiore grandi, forse più della norma, e sempre in mostra, sicuramente più della norma: sempre uguale a se stesso, sembra impossibile ricordare un Dario Fo diverso da questo.

Forse la verità è che la maschera che indossava Fo «riproduceva esattamente la sua faccia», come ipotizza Ascanio Celestini ricordando il maestro, «una maschera per dire che le maschere non esistono».

Ma se questo è vero, e lo è, quello che salutiamo non è solo un artista straordinario, un personaggio storico della contemporaneità, ma anche un uomo vero di grande coraggio e ironia, cultura e umiltà, un insegnante e un compagno.

Laura Spataro

Ottobre 2016

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