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A volte basta una scelta

A volte basta una scelta

Tornare ai prodotti che raccontano storie per costruire un mondo (e un’economia) migliore 

Quando nel 2013 è crollato il Rana Plaza di Dacca, in Bangladesh, seppellendo sotto le sue macerie oltre 1200 persone sfruttate in larghissima parte nelle industrie tessili che forniscono gli abiti ad alcune delle più importanti catene di fast fashion mondiali, il mondo si è dovuto accorgere a forza del fatto che i maglioncini in tinte pastello a 10 euro l'uno, i jeans impilati nei negozi in base al colore, le magliette all'ultima moda e tutti gli accessori glamour a prezzi popolari richiedevano un pesantissimo tributo in termini di vite umane, sfruttamenti e inquinamento.

Sono passati più di sei anni da allora, eppure i fatturati di marchi come Zara, H&M, Camaieau, Mango e Primark – solo per citare alcuni dei più famosi - hanno continuato a crescere: nonostante le proteste, i sit in, la nascita di associazioni e movimenti di protesta contro la fast fashion, i colossi della moda usa e getta hanno continuato la loro scalata, forti dei loro prodotti a basso costo, del continuo ricambio di collezioni nei negozi e delle produzioni per il consumatore più convenienti da acquistare nuove, piuttosto che da sistemare o rammendare. Eppure le abbiamo viste tutti, le immagini dell'edificio collassato su migliaia di vite umane. Eppure lo sappiamo tutti che il Rana Plaza era solo uno, e che nel mondo ne esistono centinaia di altri: in Bangladesh, in India, in Cambogia, in Turchia, in Romania, quanti sono gli stabilimenti necessari per produrre i nostri maglioncini low cost?

Non serve essere un economista per fare due conti, e rendersi conto che certi prezzi (per noi) così convenienti significa che da qualche altra parte si è andati al ribasso, e che a pagare è sempre chi non può difendersi: le persone più povere e l'ambiente. Allora forse, l'esame di coscienza tocca anche a noi. Perché tra le cose che sappiamo, c'è anche la consapevolezza che i nostri consumi possono direzionare il mercato. Il mercato non è un essere monolitico immobile: è frutto delle scelte di chi vi agisce. Allora va bene denunciare gli sfruttamenti, va bene chiedere ai grandi marchi una maggiore attenzione alla filiera produttiva, va bene protestare perché migliorino le condizioni dei lavoratori: va tutto benissimo, ma non basta.

Serve un'azione consapevole nel momento dell'acquisto, anzi, serve un'azione consapevole anche prima dell'acquisto, altrimenti non basta: vale per i vestiti - forse uno dei settori in cui la contraddizione tra necessità effettiva e consumismo fine a se stesso è più evidente – e vale per qualsiasi altro settore. L'unico modo reale per cambiare le cose è chiedere con i propri acquisti consapevoli che esse siano diverse. Approfittiamo allora di queste feste per tornare alla base, alle materie prime di qualità, alle cose che durano, perché fatte bene.

Ai prodotti che non portino i segni nascosti di dita insanguinate, ma che raccontino storie di dignità, di cura, di lavoro, provengano tanto dalla bottega artigiana quanto dalla realtà industriale di eccellenza. Torniamo a dare valore alle storie nascoste nei prodotti “belli e buoni”, invece che ingozzarci di anonimato a basso costo, che dura soltanto il tempo di due lavaggi e si perde poi in montagne di spazzatura. Torniamo a immaginare le vite degli oggetti prima che arrivino a noi e pure dopo che a noi non servono più, e a volere oggetti e prodotti che ce l'abbiano, una vita e un'anima, e che non l'abbiano strappata al suolo, all'aria, all'acqua e a chi è meno fortunato di noi. Torniamo, soprattutto, a scegliere: sarà solo allora che potremo davvero dire “ne vale la pena”.

Erica Balduzzi

Dicembre 2019

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