La marcia verso il rispetto è una rosa piena di spine. Dati ancora allarmanti ma cresce il coraggio il denunciare
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è stata approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948; l’articolo 119 dei Trattati sostitutivi della Comunità europea, che sancisce la parità delle retribuzioni tra lavoratori di sesso maschile e femminile per uno stesso lavoro, garantendo pari diritti in materia di accesso all’occupazione, formazione professionale e condizioni di lavoro, risale invece al 1957. Eppure, a più di 50 anni di distanza, il traguardo verso una concreta parità tra uomo e donna sembra ancora molto lontano. Con queste premesse, quali prospettive si aprono sul tema della violenza contro le donne? Una problematica che inizia a farsi strada nel dibattito internazionale solamente pochi decenni fa.
La Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne è stata varata durante la Conferenza di Vienna sui diritti umani nel 1993. Uno “strumento internazionale” che per la prima volta delinea i confini di tutti quegli atti di violenza sessista che producono, o potrebbero farlo, danni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche, comprese le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che in quella privata. Non solo percosse, abusi sessuali, stupri coniugali, mutilazioni genitali, delitti d’onore, ma anche sfruttamento, tratta delle donne, prostituzione forzata, violenza per questioni di dote, aborti selettivi per sesso, infanticidio di bambine, disuguaglianza di genere nell’accesso all’alimentazione, matrimoni precoci, il “sati” o rogo delle vedove diffuso in India, test di verginità pre-matrimoniali, attacchi con l’acido, costrizioni in materia di abbigliamento, violenza contro le donne a sfondo etnico e razzista o legata a pregiudizi culturali, all’intolleranza, all’estremismo religioso e anti-religioso, molestie e intimidazioni sul lavoro o nelle istituzioni scolastiche. La lista è lunga e assume le deformazioni sociali e culturali di tutti i paesi del mondo.
Piazze, istituzioni e quotidianità
Il dibattito sulla violenza contro le donne non si ferma sui tavoli del Palazzo di Vetro dell’ONU: molto prima che trovasse un abito “istituzionale”, vestiva gli slogan dei movimenti delle donne e delle loro campagne di denuncia, ma è solo nel 1997 che Parlamento europeo lancia una forte iniziativa contro la violenza a cui segue il finanziamento di numerosi progetti europei che dura tuttora. Eppure, nonostante la rassicurante smobilitazione delle istituzioni internazionali, la vita quotidiana si tinge ancora di paura per circa due donne su tre, solo in Italia. Nel 2013, i casi di femminicidio (sulla base dei dati raccolti dall’UDI e dalla Casa delle donne per non subire violenza di Bologna) sono stati 130. Ma i femminicidi fanno parte di un fenomeno molto più vasto: dagli ultimi dati ISTAT, indagine multiscopo sulle famiglie “Sicurezza delle donne” del 2006, ammontano a circa 7 milioni le donne che nel corso della loro vita sono state vittime di violenza fisica o sessuale. In altre parole, il 31,4% della popolazione femminile italiana è stata, in qualche modo, vittima di violenza da parte di un uomo.
Realtà virtuale, violenza reale
E in rete, la sottile linea rossa si fa ancora più impalpabile ma non per questo meno affilata. Il 5 gennaio 2013, a Novara, Carolina Picchio, 14 anni, si è suicidata dopo essere stata vittima di atti di cyberbullismo: «Le parole fanno più male delle botte» ha scritto nel biglietto lasciato alla famiglia. Sul web la violenza nei confronti delle donne si manifesta nella violazione della loro immagine attraverso la pubblicazione di foto e video, con conseguenze tragicamente reali nella vita delle persone. Il web non ha nulla di virtuale quando si trasforma nello strumento per consumare crimini e atti di violenza. La diffusione dei dati diffusi dall’organizzazione statunitense “Working to halt online abuse”, ha fatto luce su un oscuro universo sommerso: delle 3.787 persone che hanno denunciato episodi di violenza sul web, il 72,5% è rappresentato da donne. Per la maggior parte adolescenti, aggredite con insulti verbali, che in certi casi si sono tradotti in molestie fisiche. Lungi dal sostenere la necessità di un bavaglio alla libera espressione della rete, occorre però che vengano prese delle misure efficaci contro siti e immagini che istigano all’odio sessista, così come avviene per i siti pedopornografici o quelli nazisti e fascisti che istigano all’odio razziale.
Grazie a iniziative come lo spettacolo “Ferite a morte” di Serena Dandini e Maura Misiti, che coinvolge anche personalità del mondo della politica come Emma Bonino e del sindacato come Susanna Camusso, l’attenzione al fenomeno è sempre più alta, ma non bisogna pensare che basti la parola, anche se di denuncia. Perché nessuna donna è immune alla violenza, in qualunque forma essa si presenti. Non lo sono quelle che ricoprono ruoli istituzionali importanti, pensiamo alle recenti denunce di Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputati, in merito alle aggressione di cui è stata vittima sul web, non lo sono le professioniste affermate, né tantomeno quelle che conducono una vita “tranquilla” in piccoli centri di paese dove non succede mai nulla.
Ribaltamento culturale
Il problema va affrontato in maniera integrata: le strutture dello stato e la società civile devono lavorare insieme per rispondere in modo efficace alle sempre più numerose denunce. Perché i dati parlano chiaro: su dieci donne uccise, sette si erano già rivolte alle forze dell’ordine. Tutti coloro che si trovano coinvolti, dalle forze dell’ordine ai medici che accolgono le vittime al Pronto Soccorso, in base alle rispettive funzioni a competenze, devono sapere cosa fare quando si trovano difronte una donna che chiede aiuto, fornendo un sostegno reale e superando le barriere di una burocrazia molto spesso scoraggiante e inefficace.
Oltre a volontà politica, adeguate risorse e comportamento virtuoso di comuni e regioni, non ci si può esimere da una seria riflessione che scandagli quegli anfratti culturali per cui la violenza maschile è tollerata e giustificata. È compito della cultura, della scuola e dei mezzi di comunicazione combattere stereotipi, modificare linguaggi, individuare nella storia e nella letteratura le radici della disparità di potere. L’aggressione e l’intimidazione nei confronti delle donne sono una minaccia ai principi di eguaglianza e libertà di espressione: siamo tutti responsabili perché il male non diventi banalità.
Alice Motti