Il capolavoro di Ermanno Olmi. “Una miscela di dolcezza angelica e vita reale”
C’è chi lo definisce il poema epico dei bergamaschi, chi – come il regista britannico Mike Leigh – una vera “festa per gli occhi”, esaltandone non solo i contenuti ma anche la forma rimasta insuperata. L’albero degli zoccoli in realtà è molto di più: non è solo la poesia della vita contadina nelle campagne, è il canto di un intero popolo. Quello degli umili, dei vinti e degli oppressi, che tuttavia accettano con fiduciosa rassegnazione la propria condizione esistenziale. L’albero degli zoccoli è la vita che si viveva veramente in quelle campagne, i tormenti che si pativano, la paura di non riuscire a sopravvivere, il frutto del duro lavoro nei campi. Tutte condizioni difficili, che tuttavia avevano una loro dignità e da cui sempre nascevano barlumi di speranza.
Una storia tante storie
Le storie che compongono il film sono quattro, come il numero delle famiglie che abitano in un cascinale anonimo della campagna bergamasca, ambientazione principale del film. C’è la storia della vedova Runk (interpretata da Teresa Brescianini), costretta a fare la lavandaia per sfamare i figli.
Uno di questi trova lavoro come garzone e si oppone all’idea di mandare i fratellini più piccoli dalle suore, a costo di lavorare giorno e notte per mantenere i famigliari. A peggiorare la situazione economica della famiglia, incombe la malattia della vacca, unica loro fonte di sostentamento: la vedova Runk però, piuttosto che farla macellare, prega ardentemente e fa bere all’animale dell’acqua benedetta, confidando nell'aiuto del Signore.
Il padre della vedova è nonno Anselmo (Giuseppe Brignoli), probabilmente l’uomo più saggio che incontriamo nel film: è lui, infatti, a raccontare ai bambini storie, leggende e canzoni popolari e solo lui conosce il trucco giusto per coltivare amorevolmente i pomodori da vendere poi in anticipo al mercato. È una saggezza contadina, la sua, che solo un uomo provato dalle fatiche nei campi sa dare, l’erede di una millenaria cultura popolare.
Poi c’è la storia del timido corteggiamento di Stefano (Franco Pilenga) a Maddalena (Lucia Pezzoli), giovane filandaia. I due si sposano e si recano a Milano dalla zia della ragazza. Siamo nel 1898 e la città è agitata dai moti di repressione del generale Bava Beccaris. Nel convento delle suore, ai giovani sposini viene presentato un orfanello, che i due decidono di tenere e di adottare.
La terza famiglia è quella del Finard (Battista Trevaini), uomo piuttosto inquieto, che una sera trova una moneta preziosa, la nasconde nello zoccolo del cavallo e quando non la trova più, inveisce contro l’animale che si ribella (è forse l’unico atto di ribellione dell’intero film). Le vicende dell’ultima famiglia sono quelle che danno invece il titolo all'opera di Olmi. Il fittavolo Batistì (Luigi Ornaghi) ha tre figli, di cui uno appena nato.
Il primogenito Minek (interpretato da Omar Brignoli) dimostra una spiccata predisposizione per lo studio e su suggerimento del parroco del paese, don Carlo, interpretato dal noto umorista Carmelo Silva, viene avviato alle scuole elementari, nonostante il padre la consideri inizialmente una cosa inappropriata per una famiglia di contadini. Un giorno il piccolo Minek, tornando a casa da scuola, rompe lo zoccolo: il padre abbatte quindi un albero per poter procurare al figlio delle nuove calzature. Il problema è che nulla appartiene a quei poveri contadini, né la terra che lavorano né la casa dove abitano: quando il padrone del cascinale si accorge che quell’albero è stato tagliato e scopre il “colpevole”, caccia via dalla cascina Batistì con tutta la sua famiglia. Pur con la tristezza nel cuore, l’uomo accetta il proprio destino e con la moglie e i figli si allontana verso un futuro incerto.
Quel che Olmi riesce magistralmente a fare è poetare con la settima arte, dipingere un mondo (con i suoi valori e la sua genuinità) ormai perduto perché divorato dal progresso senza tuttavia mitizzarlo, ma semplicemente limitandosi a tratteggiarlo.
Un risultato ancora più ammirevole se si considera che l’elevato standard artistico è stato ottenuto senza ricorrere ad attori professionisti, ma coinvolgendo la gente del posto, veri contadini di quelle stesse terre in cui è ambientato il film.
Lo stesso Olmi, che del film cura anche la fotografia e la sceneggiatura, veniva da quel mondo contadino. Un mondo che ha sempre ricordato con affetto, perché nella casa dei nonni materni nella campagna di Treviglio era solito passare lunghi periodi estivi: «La figura che mi è molto cara è la nonna materna. Era una parte di quel mondo in rapporto con la sua realtà in modo naturale e armonico. Oggi è difficile trovare persone in grado di rappresentare in una sintesi molto suggestiva il proprio mondo. Mia nonna era una persona di grande cultura, non nel senso accademico, ma intesa come legame tra persona e realtà a cui appartiene. Era espressione ideale di quella realtà contadina».
Il regista inoltre rimarcò il fatto che i contadini assoldati per girare il film parteciparono spontaneamente alle riprese, perché – da ultimi eredi di quel mondo contadino di fine Ottocento con la propria cultura e le proprie tradizioni – intuirono che avrebbero potuto consegnare per sempre alla storia un pezzettino di un universo ormai quasi dimenticato. E così Olmi è andato alla ricerca delle ultime stalle, degli ultimi arnesi, delle ultime cascine prima che si perdessero nella voragine dell’oblio. Non ci fu bisogno di scrivere sceneggiature e dialoghi: essendo abituato a lavorare artigianalmente, Olmi capiva al momento come impostare le inquadrature. Molto spesso agli attori-non attori dava solo indicazioni generiche su quello che avrebbero dovuto dire, in modo tale da ottenere dai protagonisti delle battute spontanee e assolutamente veritiere.
Grave e lieve come la musica di Bach
Una menzione speciale spetta alle bellissime musiche che fanno da sfondo alle vicende: si tratta di brani di Bach, eseguiti all’organo da Fernando Germani, all’epoca un acclamato e apprezzato esponente della musica organistica.
Poi nella storia ricorrono ovviamente canzoni popolari intonate dai protagonisti. Quando Ermanno Olmi trascorreva le giornate in campagna, di questo mondo apprezzava i rumori e i silenzi: «la campagna è ricca di suggerimenti, di emozioni, al punto che ogni minimo fruscio può raccontarci una storia». Quindi per il film il regista ha scelto una colonna sonora che si integra armoniosamente con le immagini e ne esalta i punti salienti (come nella sequenza del taglio dell’albero per ricavarne gli zoccoli). Per il regista la musica di Bach non è né aristocratica né popolaresca, ma semplice ed essenziale come la verità e come la vita dei contadini di quell’epoca. Il critico Morando Morandini ha dunque scritto: «È un film solenne e severo, grave e pur lieve come la musica d’organo di Bach che l’accompagna».
E quando il film andò a Cannes?
La pellicola venne selezionata per il concorso di Cannes in una fredda giornata d’inverno a Roma. Fu lo stesso direttore del prestigioso Festival francese Gilles Jacob a parlarne: «Sono stato immediatamente sedotto da L’albero degli zoccoli, dalla sua miscela di dolcezza angelica e vita reale, dal suo ritmo quieto, agli antipodi delle frenesie della televisione che deve continuamente catturare l’attenzione degli spettatori. In fondo si trattava quasi d’un film religioso. Una contemplazione un po’ rassegnata di personaggi rassegnati. Non c’è ribellione ne L’albero degli zoccoli, anche se mostra cose durissime». Poi aggiunge: «Qui Olmi è molto più di un regista: è un vero autore. I temi di questo autore sono i valori della famiglia, l’amore per i propri cari, per le proprie radici, il ritorno alla terra, tutti valori cattolici». Insomma, il film aveva tutti i requisiti per essere messo in concorso.
Nonostante L’albero degli zoccoli fosse il film di apertura della cerimonia, quando ancora non si è entrati veramente nel vivo della manifestazione, «mi sono accorto che il film creò una sorta di boom dirompente», rivelò Olmi. «La cosa che ricordo con grande soddisfazione è che il presidente Alan Pakula, quando ci siamo salutati, mi ha detto una cosa che mi ha lasciato una soddisfazione enorme: “Sono arrivato qui dall’America in un modo e, dopo aver visto questo film, riparto diverso”». Il film uscì nelle sale italiane nel settembre 1978. L’anno successivo andò in onda anche sulla Rete 1 della Rai, che aveva finanziato il film di Olmi insieme con la Italnoleggio. Il pubblico televisivo non accolse il film con entusiasmo, ma c’è da dire che venne trasmesso in una serata particolare, il 24 dicembre, e in versione originale, cioè in dialetto bergamasco con sottotitoli, nonostante esistesse anche una versione doppiata in italiano dagli stessi attori. Tra i colleghi di Ermanno Olmi che più hanno apprezzato la pellicola ci fu Mario Soldati, che all’amico scrisse un’epistola: «fino a quando non ho visto l’Albero, mi sembravi custodire un segreto e poi, vedendolo, ho capito che in questo straordinario film si allineano, uno dopo l’altro, episodi, particolari, tratti e modi che sono infallibile indizio di autentica grazia, di qualità eccelsa. L’arte, qualunque arte, è eccelsa quando ottiene potentissimi effetti con mezzi minimi: quando affida a piccoli segni i temi più grandi».
Lorenzo dell'Onore

• Interpretato da contadini e gente della campagna bergamasca
• Durata 179 minuti
• Fotografia di Ermanno Olmi
• Musiche di Johann Sebastian Bach eseguite all’organo da Fernando Germani
• Montaggio di Ermanno Olmi
• Scenografia di Enrico Tovaglieri
• Costumi di Francesca Zucchelli
• Una produzione Gruppo Produzione Cinema (Milano) –Rai – Italnoleggio Cinematografico
Ermanno Olmi non solo si è servito di attori non professionisti, veri abitanti di quei luoghi ripresi nella pellicola, ma si è anche affidato unicamente al dialetto bergamasco per poter conferire all’opera una dimensione più verosimile possibile. Benché esista una versione per il pubblico nazionale in lingua italiana, se ne consiglia la visione in lingua originale con i sottotitoli.
Olmi non impiega il dialetto bergamasco con il fine di celebrarlo né tantomeno con intenti caricaturali, ma semplicemente per quello che è: la lingua in uso presso la gente comune coinvolta nelle vicende narrate. L’unica parte di tutto il film interamente in italiano è il comizio del politico nella piazza dove il Finard trova una moneta d’oro. All’epoca effettivamente nessuno si sarebbe sognato di parlare in italiano, eccezion fatta per le persone colte. Non dobbiamo però credere che i dialetti siano lingue rozze e degenerate solo perché in uso presso il popolo non istruito; dopotutto, l’italiano stesso non è altro che un dialetto – quello fiorentino – che “ha fatto carriera”. Tutti i dialetti italiani, o lingue volgari, derivano dalla stessa lingua madre, che è il latino, e hanno precise origini storiche documentate. Con l’avvento della scolarizzazione di massa e l’unificazione linguistica operata dalla televisione ha preso piede l’idea che parlare in dialetto equivalga a essere ignoranti (il bergamasco, in particolare, si è guadagnato la fama di lingua rozza), ma è una considerazione errata.
Il linguista Marco Robecchi ricorda che il dialetto bergamasco ha alle spalle 800 anni di storia: le prime testimonianze di questa lingua risalgono al XIII secolo e si tratta di semplici annotazioni scolastiche. È stato, per esempio, rinvenuto un glossario dove, accanto alle parole latine dei testi classici che si studiavano, sono presenti le relative traduzioni in dialetto.
Al secolo successivo risalgono le prime testimonianze dell’uso del bergamasco in testi di prosa. Esse sono il “Lucidario”, un testo di catechismo tradotto dall’originale latino del 1100, e un diario personale del medico Battista Cucchi nel quale l’uomo annotò tutti gli interventi da lui eseguiti nell’arco di venti anni di attività.
Dalla fine del Quattrocento il volgare parlato a Bergamo cominciò a essere bollato come lingua degli incolti, ma già molto tempo prima era stato lo stesso Dante Alighieri – rinomato studioso di linguistica oltre che sommo poeta – a classificarlo come tale. Gli autori cominciarono a usare il bergamasco con intenti ironici e denigratori, anche se non sono mancati atteggiamenti opposti, ovvero di grandi uomini di cultura che si sono serviti del bergamasco per il bene della propria terra e per avvicinarsi più facilmente al proprio pubblico di lettori: è il caso dell’abate Giuseppe Rota, vissuto nel Settecento.
Riscoprire il profondo valore storico e culturale del dialetto: anche in questo ambito il capolavoro di Ermanno Olmi ci concede uno spunto ancora oggi tutto da approfondire.