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Una risata vi seppellirà. Uno, nessuno, centomila Charlie

Una risata vi seppellirà. Uno, nessuno, centomila Charlie

Libertà di dissacrazione e guerra delle civiltà, retorica mediatica e integrazione: l’attentato di Parigi e le implicazioni nella vita di tutti

Sulla strage di Charlie Hebdo e gli eventi dei giorni successivi al 7 gennaio è già stato detto molto, quindi il rischio di impantanarsi nella retorica dello slogan è alto. Il tema complesso e sfaccettato, ha implicazioni che trascendono i fatti e sollevano problemi per cui è difficile trovare una soluzione. Riflettere e discuterne, però, è il primo passo per una comprensione più ampia. L’attacco terroristico alla redazione del settimanale satirico francese non è stato un gesto di folle violenza, ma un attentato meditato ai diritti e ai valori di libertà delle democrazie occidentali.

Il terrorismo islamico, come qualsiasi fanatismo integralista, colpisce proprio lì, al cuore, volendo sradicare ciò che la nostra civiltà ha lottato per avere e contro cui i fondamentalisti scatenano tutta la propria rabbia indignata. La libertà di critica, il ridicolo, il dissacrante vanificano il terrore imposto dal dispotismo più di qualsiasi arma; la risata è insopportabile a chi predica l’obbedienza assoluta e la censura inappellabile, facendosi martire della volontà intransigente di estirpare tutto ciò che non è dogmatico, non è imposto.

Il Financial Times e in parte anche il New York Times hanno criticato le vignette apparse su Charlie Hebdo, accusando il giornale di spregiudicatezza; bisogna stare attenti a giocare col fuoco. Ora, è vero, le vignette di Charlie Hebdo sono spesso dissacranti e crudeli, al limite del rispetto e del buon gusto; possono offendere e far arrabbiare, ma è giusto che ci siano. Nei giorni successivi ai fatti di Parigi, tra la retorica mediatica dei vari “je suis Charlie” una vignetta recitava le parole di Voltaire: “Non condivido ciò che dici, ma lotterò sempre affinché tu possa continuare a dirlo”.

La libertà d’espressione non è negoziabile. È un valore imprescindibile per noi figli inconsapevoli dell’Illuminismo, è parte integrante di ciò che siamo; il venir meno di questo principio apre la porta ai regimi del terrore, la nostra storia recente non deve smettere di ricordarcelo. Il terrorismo però è una tecnica di guerra, non la causa di tutti i mali. Non si tratta di un’idea, ma di un’arma che fa leva sul panico per produrre isterismo di massa e reazioni intolleranti nel tollerante Occidente. Ma allora qual è la causa, l’ideologia che sta dietro?

Facile avere la risposta pronta: l’islam. Ecco che si staglia imponente il nemico numero uno, quello che tutti odiano e temono perché vuole conquistarci, vuole sottometterci tutti come fa con le sue donne. “Loro” sono già tra noi, dovevamo pensarci prima di lasciar approdare quei barconi sulle nostre sponde, ora non ci resta che diffidare, chiuderci nelle nostre piccole case e guardare il vicino dall’occhiello del sospetto.

“Guerra delle civiltà” è il grande slogan tornato in voga tra penne note e meno note sulle pagine dei giornali di queste settimane. Sì, perché tutto è bianco o nero; c’è l’Occidente tollerante, e un po’ avventato come sembrano suggerire le testate del politically correct, e l’islam fanatico e integralista. Poi qualche benpensante suggerisce anche una nuova specie: gli islamici moderati, che fanno tanto pensare a una rivisitazione contemporanea del “buon selvaggio” rousseauiano, quelli insomma con cui si può parlare con un po’ di timore, ma almeno non si corre il rischio di essere sgozzati.

Occorre fare un po’ di chiarezza: l’islam non promuove la violenza né promuove la pace. È una fede, un credo che assume connotati a seconda delle interpretazioni e dell’uso che se ne fa. I musulmani nel mondo sono circa 1,6 miliardi, cioè il 23 per cento della popolazione mondiale; sono presenti in Indonesia (il paese musulmano più popoloso), in Asia meridionale, nel vicino e medio Oriente, nell’Africa subsahariana e sì, anche in Europa. Come si può pensare all’Islam come blocco unico? Come si può pensare che una donna musulmana che abita a Londra viva la propria religione nello stesso modo in cui la vive una donna musulmana nel sanguinoso Pakistan?

L’islam non fa riferimento a una “Chiesa”, a una struttura che dia indicazioni precise su come agire; esiste un libro sacro a cui vengono date diverse interpretazioni. Esistono minoranze agguerrite e politicizzate che manipolano la religione e ne fanno uno strumento di violenza. Questa però non è una novità: sono esistiti ed esistono cristiani violenti, hindu violenti, ebrei violenti e buddisti violenti che utilizzano la religione come espediente per giustificare il terrore.

Alcuni ne fanno una questione di modernità. La fine del Medioevo per noi ha significato la separazione del potere politico da quello religioso e l’affermazione dello Stato Moderno; l’avvento dell’Illuminismo ha poi consacrato la libertà di espressione come stendardo e principio irrinunciabile della democrazia. In Medioriente, dove ha origine l’islamismo integralista, sono fermi al Medioevo, dicono alcuni; quindi l’arretratezza rende impossibile il dialogo, le nostre culture sono inconciliabili.

È vero, l’islam è una religione che ¬– come altre – nutre il sistema politico-sociale di alcuni Paesi dalle radici, per cui la vita del singolo è impregnata e condizionata dal suo credo. Si tratta spesso di teocrazie, ma non significa che le civiltà mediorientali siano rimaste al Medioevo: questo è l’errore di chi parte da una prospettiva che pone al centro l’Occidente e la sua particolare storia. La nostra storia non può essere modello né metro di paragone per lo sviluppo politico, culturale e sociale di altri popoli.

Parlare di guerra delle civiltà, quindi, è avventato; il confronto con l’islam non può essere ridotto al manicheismo del buono e del cattivo, del giusto e dello sbagliato. Non possiamo più permetterci di cadere nella banalità di un riduzionismo che non prende in considerazione il nostro tempo, il tempo delle migrazioni globali e dell’interconnessione digitale. Reagire al terrore con lo spavento e il sospetto diffuso, ridurre l’islam all’islamismo fanatico è la soluzione più facile perché fa leva sull’odio, sul rancore, sulla vendetta e, soprattutto, incontra l’immediato consenso delle masse.

Più complesso, invece, lavorare sul tema dell’integrazione; un termine abusato da tanti programmi elettorali di sinistra che spesso si è tradotto in una tolleranza perbenista di facciata. La verità è che siamo impreparati e, quel che è peggio, fingiamo di non esserlo. Il confronto con persone e culture diverse, che fino a una decina di anni fa era solo il tema di qualche saggio, oggi lo viviamo tutti i giorni nel profumo di curry che arriva dall’appartamento vicino, nei passi delicati di corpi coperti, nelle classi in cui le tonalità dell’italiano sono sfumate dai diversi colori della pelle degli alunni. Noi osserviamo, ma fondamentalmente non capiamo e abbiamo paura.

Lavorare sull’integrazione significa sapere innanzitutto chi siamo e in cosa crediamo, essere portatori convinti di un’identità culturale; fondamentale però è anche imparare a conoscere il diverso per rispettarlo nella sua alterità e non sentirlo più come qualcosa di estraneo e sospetto. Deve venir meno la paura del contagio, bisogna iniziare ad accogliere con curiosità la contaminazione, o meglio, la creolizzazione di culture e gruppi etnici, supportandola con consapevolezza.

Questo lavoro deve coinvolgere la società intera, la politica, i media e soprattutto le scuole. Il fallimento dell’integrazione è innanzitutto un fallimento dell’educazione ed è proprio da qui che occorre ripartire.

La realtà è che potremo veramente parlare di coesione sociale e integrazione quando alle nostre perplessità sulla diversità dell’altro, i nostri figli risponderanno con un’irriverente risata.

Mara D’Arcangelo

Febbraio 2015

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