Secondo le Nazioni Unite le attività umane mettono a rischio gran parte degli ecosistemi. E il tempo per agire è sempre meno
Un milione di specie potrebbe non esistere più tra qualche anno e, con loro, la nostra stessa esistenza è a rischio. A stabilirlo un rapporto dell’Ipbes (piattaforma intergovernativa scientifico-politica sulla biodiversità e gli ecosistemi), organismo delle Nazioni Unite che si occupa di monitorare la situazione della biodiversità sul pianeta. Grazie al lavoro triennale di 145 esperti provenienti da 50 nazioni, sono stati analizzati circa 15mila studi scientifici e altri documenti governativi, che hanno portato alla stesura e alla presentazione del “Global assessment report on biodiversity and ecosystem services”, il più completo rapporto attualmente disponibile sulla biodiversità a livello globale.
L’ecologa argentina Sandra Diaz, co-direttrice del rapporto, ha paragonato le quasi 9 milioni di specie viventi conosciute a una “rete di salvataggio”, poiché gli ecosistemi formati dall’unione di queste specie ci permettono di avere aria e acqua pulite, cibo, energia e molto altro.
Ora questa rete si sta deteriorando e rischia di rompersi, con conseguenze che possono essere disastrose anche per l’uomo.
Tutta colpa nostra
Alla base di tutto ciò ci sono molte attività umane, tra cui deforestazione, urbanizzazione e sovrasfruttamento. Si stima che oltre il 75% delle terre emerse e circa il 66% degli oceani sia stato gravemente alterato dalle attività umane. Nelle foreste tropicali molti insetti sono scomparsi e sono in aumento i deserti, che prendono il posto delle praterie. Negli oceani aumentano le zone morte, aree quasi prive di esseri viventi, a causa di sovrapesca, acidificazione e accumulo di plastica. Tra le attività umane più impattanti a livello globale c'è l’agricoltura.
Oltre un terzo delle terre emerse e circa il 75% delle riserve di acqua dolce è infatti utilizzato per la produzione agricola, che si stima essere aumentata del 300% dal 1970. Ora però molte colture sono a rischio per il declino degli impollinatori, api in primis, senza dimenticare che tra i 100 e i 300 milioni di persone sono a rischio di inondazioni e uragani per la perdita degli habitat che offrivano protezione contro questi eventi, come fanno le foreste di mangrovie lungo le coste.
Un cambio possibile?
Cambiare si può, secondo gli autori, ma certamente non sarà facile. Entro il 2050 la metà del pianeta dovrebbe essere tutelata, con l’obiettivo intermedio del 30% entro il 2030. Si tratterebbe, tra l’altro, dell’unico modo per poter raggiungere gli obiettivi climatici stabiliti con gli accordi di Parigi.
Tra i servizi che sono in grado di offrire, gli ecosistemi assorbono circa il 60% delle emissioni derivanti dai combustibili fossili ogni anno. Da qui si può comprendere l’importanza della loro tutela, in quanto un ecosistema non in salute non sarebbe in grado di svolgere al meglio questo servizio, aumentando la probabilità di eventi meteorologici estremi. In definitiva serve un deciso cambio nella mentalità dei governi e nelle loro economie.
Si tratta di disincentivare quei settori che sfruttano le risorse naturali, quali un certo tipo di agricoltura, selvicoltura o pesca, a vantaggio della tutela e del ripristino degli ecosistemi.
Andrea Corti