Intervista a Francesca Forno: l’aggiornamento della ricerca sul consumo responsabile offre spunti per nuove riflessioni e tendenze
Il consumo responsabile fin dall’inizio ha trovato nel settore dell’alimentazione un fertile e ampio terreno d’azione. Tanti soggetti attivi in questo ambito sono partiti proprio chiedendosi come e dove acquistare beni alimentari più equi, giusti e sostenibili.
Storici esempi sono i GAS, Gruppi di Acquisto Solidale, che hanno iniziato andando alla ricerca di produttori agricoli virtuosi da sostenere, oppure Bilanci di Giustizia, che ha fatto dell’autoproduzione in cucina, in particolare il pane fatto in casa, una delle sue buone pratiche emblematiche, oppure ancora le botteghe del commercio equosolidale, antesignane di una cultura della giustizia che passa attraverso la produzione e l’acquisto di beni alimentari, inizialmente solo coloniali come tè e caffè.
Il consumo responsabile ha fatto molta strada. Lo dimostrano, tra le tante esperienze, la storia ultratrentennale dei GAS, il movimento Slow Food, che ha mosso i primi passi a metà degli anni ottanta o la prima edizione della “Guida al consumo critico” del Centro Nuovo Modello di Sviluppo che risale a ben 28 anni fa.
Praticare oggi il consumo responsabile
Ma cosa significa praticare il consumo responsabile ai nostri giorni?
Ne parliamo con Francesca Forno, professoressa associata al Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento che conduce l’indagine biennale - da poco aggiornata - in collaborazione con Paolo Graziano, professore ordinario all’Università di Padova.
Dai dati che emergono dalla vostra ricerca, alcuni leggono una tendenza all’individualizzazione e alla depoliticizzazione delle forme di consumo responsabile: se agli inizi il consumo responsabile era un atto politico (famoso il concetto di “votare con il portafoglio”) che si condivideva attraverso esperienze relazionali, ora lo si esercita di più a livello individuale senza avere più l’ambizione di cambiare il mondo. Lei è d’accordo?
Sì, i dati a nostra disposizione sembrano suggerire questa tendenza, che a mio avviso dipende da due fattori principali, in parte collegati tra loro. Da un lato, il consumo responsabile si è diffuso notevolmente negli ultimi vent’anni, diventando, in qualche modo, una pratica "normale". Dall’altro, chi ha contribuito a promuovere queste pratiche, costruendo veri e propri laboratori viventi di sperimentazione e auto-educazione (come i Gruppi di Acquisto Solidale, le Botteghe del Mondo, le fiere del consumo critico, ecc.), le ha progressivamente integrate nel proprio stile di vita, rendendole parte delle abitudini quotidiane. Ricordo ancora quando nei Gas i nuovi membri venivano affiancati da un “gasista” più esperto, il cui compito era chiarire che il consumo non era un fine in sé, ma un mezzo per promuovere maggiore giustizia sociale e ambientale. Con il tempo, però, molti di questi spazi hanno perso il loro ruolo di "palestre" in cui allenare la "cittadinanza sostenibile". Se il significato e il fine ultimo del consumo responsabile viene dato per scontato, il rischio è che si perda la sua forza trasformativa. I dati, peraltro, mostrano che esiste ancora una percentuale significativa di persone che non conoscono le pratiche di consumo responsabile.
Nel recente incontro online organizzato da Ries (Rete Italiana Economia Solidale) Lei ha spiegato che i dati dell’aggiornamento della ricerca possono essere uno strumento per gli attori che si occupano di consumo responsabile, poiché si tratta di una “ricerca per l’azione”. Ci può spiegare meglio questo concetto e come gli attivisti possono utilizzare i dati dell’indagine?
La ricerca, quando concepita come uno strumento di riflessione e azione, può avere un impatto diretto sulle pratiche quotidiane, in particolare quando si crea una circolarità tra chi fa ricerca e chi promuove pratiche trasformative. In effetti, molte volte chi è impegnato attivamente nel cambiamento sociale o nelle iniziative per il bene comune non ha il tempo di fermarsi a riflettere sugli effetti delle proprie azioni. La ricerca, quindi, diventa una risorsa utile per fare il punto della situazione, analizzare le strategie in atto ed elaborare nuove idee. In questo senso, eventi come quello organizzato dalla Ries sono importanti, poiché offrono occasioni concrete per il dialogo tra chi pratica il cambiamento e chi lo studia, permettendo di condividere esperienze, confrontarsi su risultati ottenuti e rafforzare il pensiero critico.
Questo tipo di circolarità tra pratica e ricerca può generare azioni più consapevoli e orientate a trasformazioni più profonde e durature.
Quali sono secondo Lei le forme di consumo responsabile che oggi possono essere divulgate ed agite con maggior facilità per raggiungere una fascia di consumatori più vasta?
L'interesse crescente per l'alimentazione rappresenta sicuramente un'opportunità per coinvolgere un pubblico ampio. Tuttavia, è fondamentale sottolineare che un'alimentazione sana per le persone deve essere anche rispettosa dell'ambiente. In questo senso, l'idea di "dieta sostenibile" è particolarmente rilevante, poiché non solo favorisce la salute individuale, ma contribuisce anche al benessere collettivo e alla salvaguardia del pianeta. Una dieta sostenibile riduce lo spreco alimentare, promuove l'economia locale, sostiene il territorio, l’ambiente e tutela la salute di chi mangia e di chi produce il cibo.
È importante ricordare che in una società inquinata e segnata da disuguaglianze, nessuno può vivere veramente bene, nemmeno chi ha di più.
Simonetta Rinaldi