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Riforma costituzionale: cosa voteremo

Riforma costituzionale: cosa voteremo

Il 4 dicembre gli italiani andranno alle urne per decidere se approvare importanti cambiamenti per il nostro sistema politico

Il 4 dicembre sarà una giornata calda. Nonostante le temperature invernali, il subbuglio creatosi intorno alla riforma costituzionale sul Ddl Boschi preannuncia un clima incandescente. La verità è che, a prescindere dalle polemiche sulla personalizzazione del voto intorno alla carriera politica di Renzi e alle battaglie mediatiche tra chi inneggia allo scempio e chi accusa di conservatorismo fuori tempo massimo, si tratta di una questione seria e complessa.
Il rischio è che non cibandosi di diritto costituzionale tutti i giorni, il cittadino italiano medio sia tentato dagli slogan facili, dai video che snocciolano posizioni pro e contro in cinque punti e non si addentri a comprendere che cosa prevede effettivamente la riforma costituzionale e che legame abbia con il dibattuto “Italicum”.

Che cosa prevede la riforma costituzionale

Innanzitutto specifichiamo che il referendum sarà confermativo quindi votare Sì significherà essere a favore della riforma e votare No essere contrari.

Inoltre, come per tutti i referendum costituzionali, non sarà necessario il raggiungimento del quorum affinché sia valido.

Il primo punto essenziale della legge riguarda l’eliminazione del cosiddetto bicameralismo perfetto (attualmente in vigore), secondo cui la Camera dei Deputati e il Senato hanno gli stessi compiti e poteri.

Con la vittoria del Sì il Senato vedrebbe un consistente ridimensionamento del proprio ruolo e una perdita di poteri. Spetterebbe dunque alla sola Camera dei Deputati dare la fiducia al governo e votare leggi.

Nei trenta giorni successivi all’approvazione di una legge alla Camera, il Senato potrà, con una votazione a maggioranza assoluta, chiedere alla Camera alcune modifiche alla legge; queste potranno essere respinte o accolte tramite un semplice voto.

Il senato manterrebbe una capacità decisionale per leggi che regolano i rapporti dello stato con l’Unione europea e gli enti territoriali, per le leggi di revisione costituzionale e le leggi costituzionali, oltre che per quelle riguardanti i referendum popolari.

Infine non sarà più il Presidente del Senato a fare le veci del Presidente della Repubblica in caso di assenza, bensì quello della Camera, che diventa quindi la seconda carica dello stato.

Cosa succede quindi al Senato?

Il numero dei senatori sarà ridotto da 315 a 100 e le competenze riguarderanno principalmente il rapporto con gli enti locali, per questo il Senato dovrebbe poter svolgere il ruolo di rappresentanza istituzionale dei territori, fungendo da raccordo tra stato, regioni e comuni.

Tra i 100 senatori, 95 saranno scelti dai consigli regionali che nomineranno con metodo proporzionale 21 sindaci (uno per regione, escluso il Trentino-Alto Adige che ne nominerà due) e 74 consiglieri regionali (minimo due per regione, in proporzione alla popolazione e ai voti ottenuti dai partiti).

Questi 95 senatori resteranno in carica per la durata del loro mandato di amministratori locali. I 5 rimanenti saranno nominati direttamente dal Presidente della Repubblica e rimarranno in carica 7 anni.

Altri punti salienti della riforma riguardano l’abolizione definitiva delle province, la cui elezione diretta è già stata sostituita con un’elezione di secondo livello gestita dai sindaci e dai consiglieri comunali del territorio, e, soprattutto, la modifica del referendum come istituzione giuridica.

Attualmente i referendum di iniziativa popolare richiedono la raccolta di 500mila firme per ciascun quesito e possono essere esclusivamente abrogativi. Inoltre, sono considerati validi con il raggiungimento di un quorum del 50% più uno degli aventi diritto al voto.

Con la riforma costituzionale, qualora i cittadini firmatari che propongono il referendum popolare fossero almeno 800mila anziché 500mila, la soglia per il raggiungimento del quorum potrà scendere alla metà più uno dei votanti alle ultime elezioni politiche, anziché la metà più uno degli aventi diritto al voto.

Un ulteriore cambiamento che entrerebbe in vigore con la vincita del Sì al referendum costituzionale è l’abolizione del Cnel, il Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro. Si tratta di un organo consultivo per ciò che concerne le leggi riguardanti economia e lavoro e attualmente è composto da 64 consiglieri.

Anche l’elezione del Presidente della Repubblica subirà delle variazioni: ad oggi l’elezione spetta al Parlamento in seduta comune e da 58 rappresentanti dei consigli regionali; nei primi tre scrutini è richiesta una maggioranza dei due terzi dell’assemblea, mentre dalla quarta è richiesta una maggioranza assoluta.

Con la riforma, a votare sarebbero semplicemente i componenti di Camera e Senato; sarà necessaria la maggioranza dei due terzi dei componenti fino al quarto scrutinio, poi basteranno i tre quinti. Solo dal settimo scrutinio sarà sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti.

Un ultimo cavillo riguarda il Titolo V della Costituzione che regola le competenze tra stato e regioni: con la riforma alcune materie che prevedevano un coordinamento tra le istituzioni, saranno esclusivamente in mano allo stato. Tra queste: l’ambiente, trasporti e navigazione, produzione e distribuzione dell’energia, politiche per l’occupazione.

Le ragioni del Sì

Data la complessità del tema è difficile districarsi agilmente tra i vari cambiamenti che prevede la riforma e anche le posizioni di politici e intellettuali sul tema sono particolarmente sfaccettate, a prescindere talvolta dalla posizione politica.

Ciò che spinge a votare per il Sì è soprattutto l’esigenza di cambiare una Costituzione che non è più in grado di rispondere ai bisogni dell’Italia di oggi, essendo profondamente diverse le condizioni storico-politiche che nel ’48 portarono a una costituzione che rafforzava il Parlamento rispetto all’organo esecutivo.

È prioritario per chi vota Sì abolire il bicameralismo perfetto che ancora vige nel nostro Paese (un’eccezione nel panorama europeo) e snellire le procedure di approvazione delle leggi, consentendo d’altro canto agli enti regionali di godere di una rappresentanza istituzionale grazie alle nuove competenze assegnate al Senato.

Anche la modifica del Titolo V è gradita dai sostenitori del Sì perché porterebbe a una più efficiente gestione di alcune materie strategiche che attualmente rimbalzano tra stato e regione allungando notevolmente le tempistiche esecutive.

Uno dei cavalli di battaglia del premier Renzi nel promuovere la riforma è la realizzazione di un risparmio sui costi della politica: viene ridotto il numero dei senatori e conseguentemente anche le indennità attualmente corrisposte; in questa direzione va anche la soppressione del Cnel e delle province, che oltre a velocizzare le ordinarie procedure burocratiche dovrebbe garantire un risparmio in termini economici.

Stando ai promotori del Sì la riforma dovrebbe favorire anche l’esercizio della democrazia diretta, introducendo un referendum di carattere propositivo e modificando il meccanismo del quorum per quello abrogativo.

Le ragioni del No

Gli scettici sostengono che si tratti di una riforma scritta di fretta e senza troppa cognizione di causa pertanto, sebbene i più ritengano necessario modificare una Costituzione che non è più al passo con la storia, tutto sta nella modalità con cui si mette mano alla storica carta.

I promotori del No portano avanti l’idea di una probabile conflittualità nei rapporti tra poteri dello stato e poteri delle regioni a causa di un eccessivo accentramento di competenze; resta inoltre sospeso il motivo per cui la posizione delle regioni a statuto speciale non venga variata.

Anche il procedimento di approvazione delle leggi è nel mirino di chi voterà contro: se prima per approvare una legge ordinaria occorreva il duplice consenso di Camera e Senato, con la riforma il percorso si divide in otto, nove o dieci possibili sentieri, ovvero forme diverse di approvazione a seconda delle materie.

Questo implicherebbe un allungamento dei tempi burocratici e il possibile innescarsi di conflitti di attribuzione tra Senato e Camera. C’è poi la spinosa questione riguardante l’elezione dei senatori: saranno consiglieri regionali e sindaci ad occupare posizioni di massima rappresentanza nazionale e questo rischia di abbassare il livello di qualità del Senato, viste le recenti (e meno) cronache di stampa e giudiziarie.

Con l’immunità parlamentare quindi un’inchiesta penale a loro carico potrebbe risultare difficile, se non impossibile. Un consigliere regionale o un sindaco, inoltre, sono espressione di un territorio limitato e rimangono inevitabilmente legati alla propria carriera politica, pertanto il rischio di scivolare in localismi e conflitti di interesse sarebbe alto.

Chi voterà No mette all’indice anche il punto della riforma riguardante il referendum con l’accusa di limitare fortemente uno strumento di democrazia diretta e partecipativa: riducendo il quorum le firme necessarie per ottenere un referendum popolare non saranno più 500mila ma 800mila e questo potrebbe ostacolare l’iniziativa dei cittadini.

Le implicazioni dell’Italicum

L’Italicum è la legge elettorale approvata ormai un anno fa ed è in questi giorni al centro di polemiche vivacissime perché il cosiddetto “combinato disposto” tra riforma costituzionale e legge elettorale avrebbe risvolti problematici.

In sintesi, l’Italicum prevede che la lista o il partito che ottiene più del 40% al primo turno delle elezioni (o che vince al ballottaggio) prende il premio di maggioranza: 340 seggi su 630. Inoltre l’Italicum prevede il meccanismo dei “capilista bloccati” per cui circa metà del Parlamento non sarà eletto in base alle preferenze dei cittadini votanti ma dai partiti stessi.

Perché dunque si creerebbe conflitto con la riforma costituzionale? Il Senato, secondo quanto previsto dalla riforma, non potrà più dare la fiducia al governo e l’Italicum, grazie al premio di maggioranza, assicura al partito che vince una netta maggioranza alla Camera, indipendentemente dai consensi effettivamente ottenuti.

Secondo alcuni quindi attraverso il “combinato disposto” si rischia di creare una Camera molto forte, dominata da un partito di maggioranza che ha un numero di seggi sproporzionato rispetto all’effettivo consenso ottenuto alle elezioni.

Il dibattito è aperto e destinato a rimanere sulle prime pagine dei quotidiani nazionali fino alla fatidica data, intanto possiamo solo augurarci che i cittadini, tutti, si prendano del tempo per informarsi e tornare ad avere una consapevolezza politica che sembra da tempo perduta.

Mara D’Arcangelo

Ottobre 2016

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