L’intimità ci parla di noi, dell’altro e di come vogliamo e sappiamo mettere in pratica le nostre relazioni
Continua il nostro viaggio tra le pieghe delle lettere che compongono la parola psicologia. A ottobre il tempo comincia a rinfrescarsi e porta con sé atmosfere dai colori caldi e le prime serate in cui si desidera il tepore di un caminetto o di una stufa accesi.
Avvolti da queste sensazioni, il termine che vi proponiamo con la lettera I (la terza della parola “Psicologia”) è “intimità”.
A cosa ci fa pensare? L’intimità è confidenza, è un’espressione d’affetto tra persone legate da rapporti stretti. È profonda, segreta, un segno di vicinanza.
Perché parlarne in una rubrica di psicologia? Perché ci permette di indagare un po’ quello che accade nel nostro intimo, quello che accade nell’intimo dei nostri pensieri, nell’intimo delle relazioni affettive. In un’epoca in cui tutto è sbandierato ai quattro venti - sui social per esempio - e il mondo sembra il palcoscenico di una gara a chi pubblica di più il proprio self, che spazio rimane all’intimità?
Un compito dei professionisti della psicologia è dunque quello di permettere alle persone di esprimere la propria intimità, ma nel contempo di prendersene cura. Questo temine di primo acchito sembra essere di facile comprensione perché in uso frequente, ma in realtà non va dato per scontato.
Nell’ aprile del 2013, Agalma, rivista di studi culturali e di estetica, ha proposto un numero interamente dedicato a: “Che cos’è l’intimità?” suggerendo una divisione tripartita delle relazioni intime, che ci guida in una prima riflessione sulle tipologie di intimità esistenti.
Il primo tipo è l’edonistico (ovvero l’intimità legata esclusivamente al piacere), il secondo l’utilitaristico e il terzo l’autentico; questa suddivisione ben si allinea con ciò che il filosofo Aristotele dice sui rapporti affettivi. Infatti egli sostiene che questi siano rispettivamente fondati sul piacere, sull’interesse o sulla virtù.
Se i primi due sono fragili e accidentali perché “l’amato non è amato per se stesso, ma per il piacere o l’utilità che procura”, solo da un rapporto intimo autentico e virtuoso ci si può aspettare che nasca la fiducia e la disposizione a non farsi ingiustizia reciprocamente.
L’edonistico e l’utilitaristico sono basate sullo scambio, un’interazione che mercifica il senso stretto della relazione in funzione di un guadagno intrinseco più o meno disvelato. Riuscire ad avere una relazione autentica con se stessi, con i propri affetti e con il mondo che ci circonda è qualcosa che si basa invece su un sentimento di appartenenza reciproca che rende noi e l’Altro liberi di fare le proprie scelte. Attenzione dunque alla responsabilità che abbiamo nello scegliere di applicare l’una o l’altra modalità.
Diana Prada, Psicologa e psicoterapeuta dell’équipe TheClew
Intimità deriva dal latino intimus, superlativo di internus, inteso come qualcosa che sta molto addentro, che è il più addentro possibile. In modo figurato dà l’idea di essere molto familiare, intrinseco. È interessante notare come in questo termine sia insito un paradosso: se l’intimità la si considera come qualcosa di inesprimibile, indicibile, ineffabile e, come tale, non può essere detta la sua essenza, come possiamo fare a comunicarne il senso senza che perda così il suo valore intrinseco?
In-timus è rivolto verso l’interno, e dunque come può contemporaneamente conciliarsi con l’altro, il fuori, l’esterno? Ci troviamo di fronte a una parola che coniuga con grande maestria il dentro di noi e il rapporto con gli altri, rendendo forse il tutto ancor più curioso e affascinante.