Nell’era della fast fashion anche l’industria della moda si rende responsabile di danni all’ambiente. In un libro alcuni dati impressionanti
«61 top, 60 magliette, 34 canotte, 21 gonne, 24 vestiti, 20 paia di scarpe, 20 maglioni, 18 cinture, 15 fra cardigan e felpe con il cappuccio, 14 paia di pantaloncini corti, 14 giubbotti, 13 paia di jeans, 12 reggiseni, 11 paia di collant, 5 giacche, 4 camicie a maniche lunghe, 3 paia di pantaloni da palestra, 2 paia di pantaloni eleganti, 2 paia di pantaloni da pigiama e un gilet. Per un totale di ben 354 capi di abbigliamento»: è il contenuto dell’armadio della nota giornalista e scrittrice americana Elizabeth L. Cline ma probabilmente, se ci mettessimo a stilare la stessa lista, non saremmo da meno. Perché quella che L. Cline tratteggia nel suo libro “Siete pazzi a indossarlo!” (Edizioni Piemme, 2018), best-seller del “The New York Times” e ora anche in Italia, è una tendenza diffusa ormai nel mondo. E contagia tutti.
Le conseguenze della fast fashion
Viviamo nell’era della “fast fashion” scandita dal continuo cambio di trend e dalla conseguente frenesia all’acquisto. Siamo nell’epoca dei vestiti “usa e getta”, acquistati per pochi euro da Zara o H&M (per citare solo quelli più noti in Italia), degli abiti indossati poche volte e poi buttati perché, vista la bassa qualità, già rovinati o passati di moda. Il risultato? Gli armadi e le discariche traboccano. Ma non è solo un problema di frustrazione personale, senso di colpa e spazio.
Questa voragine consumistica ha gravi conseguenze per l’ambiente, la qualità dei prodotti che indossiamo e la vita dei lavoratori impegnati nel ciclo di produzione, distribuzione e di vendita. In America vengono comprati e accumulati circa 20 miliardi di indumenti l’anno. La Cina, dove viene prodotta la maggior parte dei nostri vestiti e dove la popolazione si sta appassionando alla moda, si trova nel pieno di una crisi ambientale, ed è sul punto di consumare più fibre tessili e altre risorse di quanto non avvenga in Occidente.
«Nei paesi più ricchi ci stiamo avvicinando alla saturazione totale e presto non saremo più in grado di infilare un altro indumento nei nostri armadi strapieni - si legge nel libro - ma le aree emergenti in Asia e in Africa stanno cercando di raggiungerci. Attualmente 140 milioni di persone ogni anno entrano a far parte della classe media globale, persone che vogliono consumare come noi. Se la corsa agli acquisti di abbigliamento continuerà con questo ritmo, l’industria della moda sarà responsabile di quasi un terzo delle emissioni di carbonio consentite per mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei due gradi, come stabilito dall’Accordo di Parigi».
La situazione in Italia
L’Italia, benché sia la culla dell’alta moda e di grandi “maison”, non fa eccezione e ama le catene di abbigliamento low cost come il resto del mondo. Gli italiani spendono per l’abbigliamento il doppio degli americani, più del 60% del loro reddito.
E il Paese «ha più negozi come Zara e H&M pro capite di quanti ce ne siano negli Stati Uniti». Inoltre, come molte altre Nazioni, ha sofferto per la corsa al prezzo basso: fra il 2009 e il 2012 quasi un’azienda manifatturiera su cinque ha chiuso, tra cui anche numerose aziende tessili vecchie di generazioni, mentre i brand spostavano la produzione nei Paesi asiatici dove la manodopera è a buon mercato (anche se lì la qualità delle materie prime e i diritti dei lavoratori non sono regolamentati come da noi).
Certo, ci sono comunque delle notizie positive e la scrittrice ricorda che da noi «la tendenza al cambiamento è forte»: «la Camera nazionale della Moda Italiana ha fissato obiettivi ambiziosi sulla sostenibilità (concentrandosi sulla riduzione e l’eliminazione delle sostanze chimiche nocive nell’industria) così come stanno facendo le società più note come Versace, Gucci, Armani, Prada, Ermenegildo Zegna, Salvatore Ferragamo e Valentino».
Purtroppo i capi di queste aziende hanno prezzi da capogiro per i comuni mortali e comprare per pochi soldi è quasi una scelta obbligata. La soluzione, quindi, non è certo cancellare H&M, Zara e simili, ma almeno abbiamo l’obbligo di informarci (per poi magari, un poco per volta, provare a fare scelte diverse). Spiega sempre L. Cline: «Ho iniziato a scrivere questo libro perché inseguire i trend tenendo d’occhio il cartellino del prezzo non mi aiutava ad amare i vestiti che indossavo. Stavo dedicando troppo tempo e troppo spazio a un’abitudine della quale sapevo vergognosamente poco. Perché mai qualcuno che non sa nulla di vestiti dovrebbe averne così tanti? Le nostre scelte in fatto di moda hanno esiti e significati sociali, e io dovevo scavare in profondità per trovarli». Lei l’ha fatto, ora tocca a noi.
Michela Offredi