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Our time is running out. L'onda verde del Global Strike ci interroga su clima e ambiente

Our time is running out

Le mobilitazioni in tutto il mondo in concomitanza con la quarta assemblea Onu sull'ambiente a Nairobi. Presentato il rapporto GEO-6: 25% di morti premature dovute all'inquinamento.

Erano tanti, principalmente giovani e giovanissimi. Hanno riempito le strade di mezzo mondo di striscioni, cartelli, cortei e musica in un'onda verde che, a distanza di giorni dal 15 marzo, ancora stenta a defluire: il Global Strike for Future, il grande sciopero globale per il clima indetto nell'ambito dei “Friday for future” sporadicamente portati avanti negli ultimi mesi, ha condotto nelle strade di oltre 100 Paesi nel mondo più di un milione di persone ed è riuscito ad accendere come non mai i riflettori sul tema dei cambiamenti climatici in modo (quasi) totalmente nuovo.

Perché questa volta a guidare la protesta – pacifica – erano le nuove generazioni, quelle che più di tutte vivranno sulla loro pelle le conseguenze dirette di un pianeta praticamente al collasso climatico. Tra un “Ci siamo rotti i polmoni” e un “There is no planet B”, tra un “Siamo con l'acqua alla gola” e un “Our time is running out” e guidati dall'esempio di una loro coetanea, la giovanissima svedese Greta Thunberg che dall'agosto 2018 sciopera da scuola ogni venerdì per chiedere azioni concrete a tutela del clima, i ragazzi e le ragazze che si sono mobilitati lo scorso 15 marzo hanno ben chiaro ciò che a volte gli adulti paiono scordare: non c'è un pianeta di riserva e il tempo stringe. Per tutti. 

A ribadirlo non sono solo gli innumerevoli rapporti della comunità scientifica internazionale, il più recente dei quali è stato quello presentato lo scorso ottobre dal Gruppo Intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC), che sottolineava gli enormi rischi per il pianeta nel caso in cui la temperatura globale media si alzi di 2° gradi. Proprio il 15 marzo, a cavallo del Global Strike, a Nairobi (Kenya) si chiudeva la quarta assemblea delle Nazioni Unite sull'ambiente, e si chiudeva con la presentazione di un rapporto choc, il Global Environment Outlook (Geo), secondo il quale un quarto delle morti premature e delle malattie nel mondo è legato all'inquinamento e ai danni ambientali causati dall'uomo. 

A Nairobi tra allarme e speranza 

La conferenza di Nairobi ha visto delegati dei Paesi membri, ministri, rappresentanti di Ong e amministratori di multinazionali confrontarsi per cinque giorni sulle tematiche ambientali, cercando di capire come moltiplicare gli sforzi per salvare il pianeta dal cambiamento climatico, dall'eccessivo sfruttamento di risorse e dall'inquinamento su scala globale.

L'Onu infatti avverte: o si aumentano le protezioni ambientali, oppure intere città e aree, soprattutto in Asia, Medio Oriente e Africa, potrebbero vedere milioni di morti premature da qui al 2050. Secondo il Global Environment Outlook (GEO-6) – a cui hanno lavorato per sei anni 250 scienziati provenienti da 70 Paesi del mondo – le cattive condizioni ambientali causano all'incirca il 25% delle malattie e della mortalità globali e l'inquinamento atmosferico causa il decesso di 6-7 milioni di morti premature ogni anno: «Emissioni inquinanti nell'atmosfera, sostanze chimiche che contaminano l'acqua potabile e la distruzione accelerata degli ecosistemi fondamentali per la sopravvivenza di miliardi di persone - si legge nel rapporto - causano una sorta di epidemia globale che ostacola anche l'economia».

Non solo: il rapporto prevede anche che «a causa degli inquinanti presenti nei nostri sistemi di acqua dolce, la resistenza anti-microbica diventerà la prima causa di decesso entro il 2050» e che «i perturbatori endocrini danneggeranno la fertilità degli uomini e delle donne, così come lo sviluppo dei bambini». Tra gli altri temi clou del rapporto, sono evidenziati gli sprechi alimentari (il 33% del cibo nel mondo viene buttato e il 56% dei rifiuti è prodotto dai paesi industrializzati), la plastica nei mari e la necessità di una pianificazione sostenibile dell'urbanizzazione, in costante crescita. 

“Siamo a un bivio”

Insomma, uno scenario fosco nel quale tuttavia non mancano sprazzi di ottimismo. Il rapporto mette infatti in evidenza il fatto che la comunità internazionale possieda già le conoscenze scientifiche, le tecnologie e i mezzi finanziari necessari per evolvere verso modelli di sviluppo più sostenibile, ma che manchi il sostegno necessario da parte degli enti pubblici, delle imprese e dei leader politici, che continuano ad aderire a modi di produzione e di sviluppo superati. «I dati scientifici sono chiari. La salute e la prosperità dell’umanità sono direttamente legate allo stato del nostro ambiente.

Questo rapporto ci dà delle prospettive per l’umanità. Siamo a un bivio – ha affermato la direttrice ad interim dell'United Nations environment programme (Unep) Joyce Msuya nel presentare il rapporto - Continueremo sulla via attuale che porterà a un futuro oscuro per l’umanità, o adotteremo una via dello sviluppo sostenibile? È la scelta che i nostri leader politici devono fare, subito». 

I più giovani questa scelta l'hanno già fatta: erano più di un milione, insieme nel mondo, a gridarla nelle strade e nelle piazze, ispirati dalla “ragazza con le trecce” che dalla Svezia è riuscita a muovere una generazione intera. 

Erica Balduzzi

 

Come è percepito il cambiamento climatico dai cittadini? 

L'indagine di BEI e YouGov su come l'opinione pubblica percepisce il problema del clima.

Come percepiscono i cittadini gli investimenti internazionali che si pongono l’obiettivo di risolvere in modo incisivo il problema dei cambiamenti climatici?

A questa domanda ha voluto rispondere la Banca europea per gli investimenti (BEI) in collaborazione con YouGov, società internazionale di analisi dell’opinione pubblica, alla sua quarta indagine sul clima. Il sondaggio ha preso in considerazione i cittadini di Unione Europea, Stati Uniti e Cina.

Ne è emerso un quadro sorprendente: i cittadini, in 12 Paesi su 30 oggetto d’indagine, si sono detti più favorevoli ad un approccio internazionale degli investimenti, invece che nazionale, perché ritenuto più efficace nella lotta ai cambiamenti climatici. Un’ottica globale che si ritrova anche a livello europeo: il 35% degli intervistati ritiene che i propri Paesi debbano investire per aiutare i paesi in via di sviluppo a combattere i cambiamenti climatici, mentre il 33% pensa che spetti a ciascun Paese decidere come affrontare le proprie problematiche legate a questo tema, piuttosto che investire altrove.

L’Italia conferma questo trend, con una percentuale maggiore rispetto alla media europea (e superiore dell’8% di Francia e del 10% dei Paesi Bassi): il 38% degli italiani ritiene che il Belpaese dovrebbe investire in tutti i Paesi che ne hanno bisogno, a prescindere da qualsiasi altra considerazione.

Solo per il 27% degli interpellati gli investimenti nella lotta ai cambiamenti climatici dovrebbero restare entro i confini nazionali, e sono soprattutto gli over 35 a mantenere quest’ottica nazionale (29%), mentre la generazione dai 18 ai 34 anni per il 39% pensa che l’investimento internazionale sia più efficace. Per il 23% invece si dovrebbe investire nei Paesi che ne han più bisogno e che sono vicini all’Italia.

Per quanto riguarda invece le conseguenze mondiali legate ai cambiamenti climatici, per il 76% degli italiani è più probabile che aumentino i fenomeni meteorologici estremi come uragani, alluvioni e siccità, per il 58% avverranno anche desertificazione e innalzamento del livello del mare. 

Giada Frana

Aprile 2019

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