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La Gran Bretagna prende il largo

La Gran Bretagna prende il largo

Nel referendum sulla Brexit i “leave” battono i “remain”, ma l’uscita dall’Unione Europea non sarà affatto indolore

Secondo la programmatica intuizione del filosofo Thomas Hobbes, sarebbero la paura e l’interesse i principi fondanti di una società. Stando ai noti risultati del referendum tenutosi nel Regno Unito il 23 giugno, l’autore del Leviatano avrebbe tutte le ragioni per compiacersi di una tale sentenza.

Tocca però procedere per gradi e sforzarsi di indagare l’accaduto spogliandosi dell’isteria e dell’emotività che governano i bilanci a caldo.

Lo schieramento dei “Leave” ha prevalso sugli europeisti con il 51,9% dei voti, vale a dire il supporto di circa 17 milioni di cittadini.

I sudditi della Regina Elisabetta non paiono però distribuirsi in modo troppo omogeneo all’interno del reame: Scozia e Irlanda del Nord, infatti, hanno nettamente optato per restare ancorati all’Unione.

Gli schieramenti: Leave or Remain

A supporto delle tesi di Nigel Farage, leader neo-dimissionario del partito reazionario Ukip, si sono schierati soprattutto gli elettori residenti nelle periferie ex e post industriali depresse da anni di crisi, impoverimento e delocalizzazioni forzate.

Un sentimento diffuso di abbandono e precariato esistenziale ha spinto la country lontano dal diplomatico immobilismo di Westminster, a prescindere dalle svariate incarnazioni assunte dal parlamento negli ultimi vent’anni.

Quel segmento sociale, un tempo noto come proletariato, abbandonato dalle affabulazioni politiche e sindacali, non coltiverebbe più speranze né aspettative nei confronti del progetto europeo, a seguito dell’esaurirsi della propulsione thatcheriana che, negli oramai arcani anni ’80, sapeva catalizzare le sue aspirazioni di crescita successivamente allo smantellamento sistematico di un welfare rassicurante.

Da qui occorre partire per interpretare gli aneliti isolazionisti, di una parte consistente dell’Inghilterra, ostile tanto ai vincoli fiscali emanati da Bruxelles quanto ai flussi migratori (degli europei continentali) rei di sottrarre opportunità agli autoctoni. Il ripristino dei filtri doganali garantirà, secondo gli animatori della campagna pro-Brexit, posti di lavoro, sicurezza e maggiori investimenti nei servizi: un refrain che riecheggia da diverso tempo presso un Occidente fiaccato da una congiuntura economica spaventosa e, a quanto pare, per nulla metabolizzata, nonostante parziali segnali di ripresa.

Parziali, per l’appunto: ciò che il referendum testimonia è che la virtuosa integrazione cosmopolita, foriera di opportunità (un’epica storicamente e ora paradossalmente anglosassone), rappresenti una narrazione valida solo per i cittadini altamente istruiti a reddito medio-alto.

Come indicato dai sondaggi, costoro rappresenterebbero statisticamente il fronte del “Remain”. Universitari e lavoratori dell’upper class appartenenti alla Metropolis globale sono riusciti a convalidare il biglietto per la modernità, superando timori e tremori concernenti la libera circolazione di forza lavoro, capitali e idee. Gli altri passeggeri invece no.

L’attuale maggioranza starebbe cercando di sabotare il treno in corsa, appigliandosi ora alle urla belluine degli xenofobi, ora alle sibille complottiste: la consultazione popolare di cui parliamo ha agito da valvola di sfogo per una sofferenza sociale, di classe, a prescindere dal clamoroso fiancheggiamento ai Leave dei principali media locali. Un tema decisivo per chiunque desideri analizzare l’evento in modo oggettivo.

Le ricadute del referendum

Urge ora domandarsi se le attese dei vincitori vantano delle chances di realizzazione, altro nodo cruciale impostoci dal tempestoso divorzio.

Gli analisti, coesi come assai di rado si verifica nella storia della finanza, tracciano quotidianamente previsioni che oscillano fra il cauto pessimismo e il calamitoso, suggerendoci le tre aree dove le ricadute del referendum si faranno sentire: i mercati e il tasso di cambio della sterlina, il commercio internazionale, la fiducia interna dei consumatori.

Standard & Poor’s, uno degli oracoli più accreditati e generalmente equilibrati fra i profeti di Cassandra, ritiene che «gli effetti economici negativi della Brexit saranno concentrati nel Regno Unito, che eviterà a malapena una recessione in piena regola, ma avranno anche importanti ramificazioni nel resto d’Europa.

La risposta della Bce rappresenterà comunque un fattore chiave di sostegno. Nonostante lo shock i forti fondamentali dell’Eurozona continueranno a spingere la domanda, sostenendo il ribilanciamento della ripresa».

Gli inglesi pagheranno quindi un prezzo maggiore e a lungo termine, anche se alcuni dissentono da questa tesi, e non stiamo parlando solo di Donald Trump e Boris Johnson.

Altre fonti legate alle società di gestione del risparmio sono convinte che i marosi borsistici si attenueranno a breve, consentendo ai britannici di esportare vantaggiosamente i propri prodotti e di decidere un radicale ridimensionamento del regime fiscale, in grado di trasformare l’isola in un paradiso off-shore meta di impensabili investimenti.

In parallelo, le casse dell’Unione vedranno svanire circa 8 miliardi di tasse. A livello geopolitico gli strateghi ipotizzano uno sbilanciamento in favore dell’asse franco-tedesco, il quale agirebbe senza lo storico contraltare inglese (pensiamo solo al peso specifico di Londra durante la ratifica del recente embargo ai danni della Russia dopo la crisi ucraina).

La seconda via immagina invece una probabile disgregazione del sogno comunitario sorto a Roma nel memorabile 1957, con un effetto domino che vedrebbe l’uscita di scena in successione di Francia, Svezia, Olanda e Italia.

Esiste inoltre una terza setta di veggenti che considera la Brexit un sisma necessario e provvidenziale affinché gli apparati amministrativi dell’Ue si ristrutturino profondamente in vista di una democratizzazione, data la siderale distanza, ad oggi, fra i popoli del vecchio continente e i burocrati che ne ordiscono le sorti, uno scarto doloroso sedimentatosi nella coscienza collettiva.

La pancia degli elettori non può accontentarsi del progetto Erasmus: gli anni di austerità e prevaricazioni capitanati dai falchi della Bce hanno inferto ferite profonde, forse non del tutto rimarginabili. Già Grecia e Portogallo tentarono la fuga, un allarme a cui Juncker e soci non prestarono evidentemente la dovuta attenzione.

Possibili scenari britannici

Qualsiasi evoluzione della faccenda richiederà comunque tempi biblici.

Al successore di Cameron spetterà l’arduo compito di ridiscutere caterve di trattati e di stabilire la nuova natura dei rapporti con Bruxelles secondo modelli vigenti quali quello norvegese (libera circolazione e accesso ai fondi Ue per la ricerca ma esclusione dal processo legislativo), svizzero (semplici accordi bilaterali senza la partecipazione allo Spazio Economico Europeo) o canadese (accordi unicamente commerciali su dazi e prodotti).

L’impervio negoziato si svolgerà immerso in un clima tremendamente teso, memore del recente culmine che ha visto l’attivista pro Europa Joanne Cox cadere sotto i colpi del folle neo-nazista Thomas Mair il 16 giugno scorso. «Il nazionalismo - osservava Karl Kraus - è un fiotto in cui ogni altro pensiero annega».

Da considerare infine che permangono delle possibilità di dietrofront, data la natura consultiva del referendum: in via assolutamente eccezionale il parlamento potrebbe rigettarne gli esiti, uno scenario non così surreale dati i nevrotici ripensamenti di tanti inglesi confusi e le pressioni di un establishment liberista, va da sé, avverso ad ogni forma di protezionismo.

Al di là del disfattismo degli idealisti disillusi, oltre le campane a festa dei picconatori patriottardi e revanscisti, al di sopra della regina, vige, lei sì incontrastata, l’incertezza, complessa e cangiante più che mai.

Davide Albanese

Luglio 2016

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