Le conseguenze nefaste dell’industria fast fashion sulla nostra qualità di vita e lavoro sono chiare, ma il fenomeno non si ferma
Fast fashion: chi non ha mai acquistato almeno una volta nella vita un capo proveniente dal quel settore, scagli la prima pietra. E’ innegabile che, con la sua offerta di capi a prezzo basso e varietà ampissima la “moda veloce”, meglio conosciuta appunto come “fast fashion”, abbia ammaliato praticamente tutti i consumatori e ancora continui a farlo. Abbordabile per ogni tasca, è un’ottima opportunità per chi vuole rinnovare frequentemente il proprio guardaroba o per chi non ha tempo o capacità di riparare i propri capi e può prontamente sostituirli spendendo tanto quanto, o addirittura meno, il costo della riparazione.
Negli anni ‘80, quando la “velocità della moda” cominciava a prendere piede, tutto ciò è stato vissuto come una bella opportunità, un passo avanti che permetteva di ampliare i propri consumi, di esprimersi liberamente attraverso il modo di vestire e apparire, di aumentare la stima o il valore sociale che, com’è noto, sono collegati a ciò che possiamo acquistare, di rompere la barriera che rendeva possibile tali comportamenti solo alle classi sociali più abbienti. Il suo fascino ha continuato imperterrito fino ai giorni nostri e così, alla luce confortevole del dogma “gli acquisti fanno girare l’economia e generano ricchezza”, siamo finiti in un oscuro vicolo cieco da cui è difficile uscire indenni.
Ultra Fast Fashion
Moda a velocità smodata
Da quei primi passi, la moda veloce è riuscita addirittura ad aumentare la sua pazza corsa. Il rapporto annuale “The State of Fashion 2024” messo a punto da McKinsey & Company e da Business of Fashion (BoF) spiega che la moda veloce si è evoluta negli anni ed è passata attraverso tre generazioni: la prima è quella che ha visto protagonisti i marchi come Zara e H&M, con la loro proposta al pubblico di collezioni continue, rinnovate ogni due settimane, a prezzi bassi. La seconda generazione è quella basata sullo sviluppo dell’e-commerce, ad esempio con i siti di shopping online di Asos e Boohoo. Ora assistiamo alla moda veloce di terza generazione che, seppur sembrava impossibile, ha ridotto ulteriormente i tempi di produzione meritandosi il titolo di Ultra Fast Fashion. Protagonisti indiscussi sono Shein e Temu, che non hanno negozi fisici e vendono sui loro siti online a prezzi bassissimi, con spedizione diretta al consumatore e nessun impegno verso la trasparenza.
Conseguenze evidenti e celate
Lo sfruttamento di lavoratori, lavoratrici e ambiente, necessario e imprescindibile per mantenere il ritmo veloce imposto da questo sistema, ha una vasta gamma di conseguenze più o meno visibili ai nostri occhi. Partiamo da ciò che possiamo toccare con mano: la qualità della nostra vita. Innanzitutto, come insegnano la sociologia e la psicologia, acquistare di più non ci rende più felici. Aggiungiamo che la delocalizzazione, applicata in abbondanza dall’industria tessile dei nostri paesi, ha portato altrove parecchi posti di lavoro ed inoltre chi lavora nei nostri territori nelle reti di distribuzione e vendita delle grandi catene del fast fashion è sottoposto a ritmi e condizioni a volte peggiori rispetto ad altri settori. Non dimentichiamo poi i problemi che la nostra società occidentale deve affrontare per gestire le tonnellate di rifiuti tessili che produciamo, la cui evidenza ci viene rimandata palesemente dall’immagine troppo consueta di cassonetti gialli spesso strabordanti.
A ciò si aggiungono le conseguenze che facciamo più fatica a riconoscere perché lontane da noi, che vanno dai diritti calpestati dei lavoratori negli stati dove avviene la produzione, allo sfruttamento oltremisura delle risorse naturali, dal trattamento indecente degli animali da cui si traggono materie prime tessili, all’inquinamento dovuto ai processi produttivi prima e all’incenerimento dei rifiuti tessili poi.
Comunque, anche se non tutto ricade direttamente sotto i nostri sensi, ormai la consapevolezza di questi meccanismi è fortunatamente in aumento. Ma non basta! Infatti, nonostante ciò, il fenomeno non accenna ad avviarsi verso la soluzione anzi, come si legge nell’infografica elaborata dall’Agenzia Europea dell’Ambiente, si prevede addirittura che la produzione tessile nel 2030 arrivi a 145 milioni di tonnellate, aumentando di ben due volte e mezzo rispetto alla quantità prodotta nel 2000, quando già si trattava di una cifra consistente.
Perché è difficile fare marcia indietro?
La ragione che porta chi produce a non cambiare è chiara: finché l’attuale sistema sarà economicamente vantaggioso rispetto ad una produzione più etica, responsabile, sostenibile e anche più sobria, la stragrande maggioranza dei produttori non avrà motivo di modificare il proprio comportamento aziendale.
E’ però interessante porre la domanda dal lato del consumatore, perché la risposta non è altrettanto lapalissiana e ci obbliga a fare una riflessione che ci può sollecitare ad esercitare il nostro potere di agire. Una prima motivazione dell’evidenza che non riusciamo a cambiare i nostri acquisti fino al punto di raggiungere una massa critica minima efficace, risiede nel fatto che c’è ancora tanto bisogno di informazione per creare la consapevolezza necessaria. In secondo luogo, non è difficile immaginare che chi ha un potere d’acquisto limitato non ha molta alternativa: il basso prezzo è l’unica condizione che permette l’acquisto.
Queste due considerazioni però non esauriscono il problema, che è ben più complesso. Gli esperti riflettono anche su motivazioni che hanno a che fare con il “consumo di massa patologico”. Pur senza arrivare alle forme di “shopping compulsivo”, che è un vero e proprio malessere psicologico, è innegabile che tutti noi “consumatori occidentali” siamo immersi in una forma di consumismo a cui facciamo fatica a sottrarci. Ad esempio è curioso rilevare che, a differenza di altri tipi di oggetti come ad esempio frigoriferi, laptop, lavatrici, ecc., i beni tessili per loro natura non possono essere sottoposti alla strategia commerciale dell’obsolescenza programmata che riduce il ciclo di vita naturale degli oggetti ma, nonostante ciò, vengono lo stesso sostituiti con frequenza. In altre parole, se le lavatrici prodotte negli anni ‘40 duravano una vita e quelle prodotte in tempi recenti hanno una durata limitata, è per una volontà precisa di accorciare “artificialmente” il ciclo di vita naturale dei prodotti, mantenendo alta la domanda e, quindi, gli acquisti di nuovi modelli nonostante la volontà di non sostituirli da parte del consumatore.
Nel tessile invece non si può fare: anche il più scadente di capi dura più di tre mesi e, se trattato con cura, anche più di un anno. Dovrebbe quindi sorprendere sapere che il ricambio dell’offerta sugli scaffali del fast fashion avviene ogni due settimane e che il 50% dei capi acquistati finiscono in discarica entro il primo anno di vita. Il motivo è che esiste anche un’obsolescenza “percepita” che induce a non riconoscere più il valore d’uso del capo e a disfarsene anche se è ancora funzionale. Ciò rivela che noi consumatori, pur senza essere patologici, siamo sottoposti a stimoli che hanno un impatto sull’autonomia delle nostre decisioni di acquisto e ciò emerge in modo potente se pensiamo all’effetto degli influencer, importantissimi nel settore moda, e dei social sui nostri acquisti.
Solo insieme si può
Un problema complesso che dunque richiede una soluzione complessa, che agisca su più fronti simultaneamente e che impegni non solo i cittadini ma anche i governi e le istituzioni. Le singole iniziative dal basso, seppur molto importanti, non sono sufficienti. Ad esempio, le azioni di boicottaggio (non acquistare prodotti di una certa marca) o di buycottaggio (favorire produttori virtuosi acquistando i loro prodotti), in voga negli anni passati, sono preziose ma devono essere portate avanti in sinergia con altre iniziative per coinvolgere un numero sempre maggiore di persone, aumentare l’informazione, la consapevolezza e la conoscenza. Tra queste, efficaci sono gli incontri di approfondimento con esperti, anche nelle scuole, le serate di proiezione di docufilm a tema e la crescente iniziativa degli swap party, eventi tra l’happening e il mercatino, dove le persone rinnovano il proprio guardaroba “scambiandosi” o comunque mettendo a disposizione di altri partecipanti i loro vestiti usati ancora in buono stato.
Ma non solo: è assolutamente imprescindibile che, in contemporanea, i governi e le istituzioni agiscano per influire direttamente sulle decisioni dei produttori e dei distributori, in particolare tramite l’applicazione di norme e leggi che rendano non conveniente il sistema attuale, che porta vantaggi solo a pochi grandi produttori mondiali, riduce posti di lavoro di qualità e crea illusori vantaggi agli acquirenti che in realtà pagano pesanti costi indiretti. Ad esempio, l’introduzione della “carbon tax” (tassa sul carbonio), meccanismo fiscale adottato da alcuni governi per ridurre le emissioni di gas a effetto serra per cui chi inquina paga, potrebbe davvero rendere il sistema “fast fashion” troppo oneroso, perché gravato da maggiori tasse, e favorire invece un sistema della moda meno inquinante e di conseguenza meno impattante sulla qualità di vita di tutti i cittadini.
Simonetta Rinaldi
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Il caso SHEIN
Öko-Test ha effettuato un’indagine che ha rilevato sostanze nocive contenute in capi di abbigliamento del colosso cinese Shein.
La testata tedesca ha analizzato 21 capi e scarpe, scelti tra abbigliamento da donna, uomo, adolescente e neonato. Sono risultate presenti sostanze pericolose come antimonio, dimetilformammide, piombo, cadmio, ftalati vietati, naftalene e idrocarburi policiclici aromatici (Ipa). Inoltre, in tema di mancanza di trasparenza, Öko-Test ha affermato di avere inviato all’azienda un questionario per ogni singolo prodotto con il quale chiedeva informazioni, tra cui anche quelle riguardanti il trattamento dei lavoratori, senza ricevere alcuna risposta. Ciò conferma le caratteristiche negative di chi opera nell’ambito dell’Ultra Fast Fashion che, a rigor di logica, con prezzi così bassi e ritmi così alti, difficilmente potrebbero essere diverse.
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