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Gli oceani, un mare caldo

Gli oceani, un mare caldo

Gli ultimi studi pubblicati parlano chiaro: il riscaldamento globale sta distruggendo i nostri mari

Quando si pensa al mare, si immagina una distesa d’acqua in continuo movimento, corroborante e vitale; un elemento caro ad artisti, letterati, musicisti per la poetica interpretazione che l’uomo attribuisce a esso e a quello che Jung definirebbe un “archetipo”, un’immagine mentale inconscia e collettiva.

Eppure oggi, personaggi come il pittore William Turner o il poeta Paul Valery forse si troverebbero in difficoltà a celebrare un oceano malato, violentato dalle pratiche umane.

È plausibile invece che Baudelaire o Hemingway avrebbero scritto odi sugli oceani contemporanei come culla di uno degli ecosistemi più fragili, o sulle profondità degli abissi come luoghi per lo più sconosciuti alle scienze umane, ma comunque a rischio che l’uomo possa comprometterne gravemente l’equilibrio e la vita.

Responsabilità diffusa

L’oceano costituisce una parte della Terra pressoché inesplorata, una risorsa inestimabile non solo per gli esseri viventi che lo popolano e per l’uomo: i mari sono essenziali per ogni tipo di forma di vita (e non) esistente sul nostro pianeta. Per questo è doveroso portare alla luce gli effetti disastrosi che le pratiche umane hanno sugli oceani parlando del cambiamento climatico.

Ogni anno enti, organizzazioni e centri di ricerca pubblicano studi relativi al riscaldamento globale e alle sue conseguenze nei diversi ambiti della vita terrestre; tutti abbiamo atteso con trepidazione la conclusione della Conferenza sul Clima, tenutasi a Parigi nel 2015.

Questo perché il mondo sta lentamente prendendo coscienza di aver chiesto e di stare ancora chiedendo troppo alle risorse offerte dal nostro pianeta.

La questione del surriscaldamento delle acque oceaniche forse tocca meno alcune popolazioni, probabilmente più sensibili al consumo di suolo e alla cementificazione, ma prima o poi, soprattutto se non verranno attuate misure incisive su questo frangente, tutti dovremo confrontarci con un cambiamento della nostra dieta dovuta alla mancanza di pescato, con la perdita di terreno fertile inghiottito dalle acque dei mari a seguito dello scioglimento dei ghiacci, con la scomparsa di specie animali e vegetali, per non parlare dell’aumento della concentrazione nell’aria di anidride carbonica, non più regolata dalla funzione del mare.

L’effetto del clima sui mari

L’Organizzazione metereologica mondiale (Wmo, World metereological organization) ha recentemente pubblicato il rapporto “State of the Global Climate” (sullo Stato globale del clima, 2016) contenente i risultati dei monitoraggi, condotti dal Met Office britannico, dalla Noaa (l’Amministrazione Nazionale Oceanica ed Atmosferica) e dalla Nasa statunitensi, per un periodo compreso tra il 2000 e il 2016, concludendo che i primi sedici anni del III millennio sono tra i diciassette più caldi della storia.

Una parte del “merito” di questo tragico record va al fenomeno climatico El Niño, ma la parte più impattante per l’ambiente è il riscaldamento globale dovuto all’emissione di gas serra nell’atmosfera terrestre.

Le attività di origine antropica sono alla base dell’aumento degli eventi climatici estremi, dalle ondate di calore alle inondazioni, ma anche la distruzione della barriera corallina o l’aumento delle cosiddette “zone morte”, quelle prive di ossigeno, quindi di vita.

La pesca illegale, lo sversamento di sostanze inquinanti, le trivellazioni, l’estrazione di minerali dai fondali marini (deep-sea mining) sono alcune delle pratiche umane che, insieme ai cambiamenti climatici, presto porteranno alla perdita del patrimonio ambientale, naturale e culturale legato al mare.

Le azioni della società, oramai non solamente della civiltà occidentale, hanno un impatto violento sui mari. In mancanza di una controtendenza delle abitudini quotidiane del singolo, ma soprattutto di quelle produttive delle intere nazioni, gli scienziati sono concordi nell’affermare che il riscaldamento globale porterà a un innalzamento fino a 4° C della temperatura di uno strato che, nell’oceano Pacifico e nell’Atlantico, arriverà dalla superficie a 3mila metri di profondità.

La conseguenza sarà che le riserve di cibo nelle regioni più profonde degli oceani diminuiranno del 55% entro il 2100, agevolando la crescita di agenti patogeni e lasciando senza sostentamento i microrganismi alla base della catena alimentare di cui fa parte anche l’uomo.

Il report della World Meteorological Organization ha confermato che l’accumulo sempre maggiore di CO2 nell’atmosfera ha portato a tre grandi ondate di calore che, durante lo scorso inverno, si sono imbattute violentemente sulle zone normalmente più fredde del globo: le tempeste atlantiche hanno introdotto aria calda e umida che, nel periodo di costituzione dei ghiacciai marini, ha portato a una soglia molto vicina al punto di fusione e la banchisa antartica ha raggiunto il minimo storico.

Questi cambiamenti climatici nelle regioni polari stanno provocando la modificazione dei regimi della circolazione oceanica e atmosferica, che porteranno, la prima, a sfasamenti nel bioritmo della fauna marina, la seconda, a condizioni metereologiche instabili.

L’azione degradante dell’uomo

Parallelamente agli studi condotti dall’Organizzazione metereologica mondiale, un team di scienziati marini dell’International Programme on the State of the Ocean (Ipso), dell’Università di Oxford e dell’Iucn (Unione mondiale per la conservazione della natura), hanno pubblicato un rapporto allarmante sul degrado ambientale degli oceani, in cui si evidenzia quanto l’ambiente marino sia frustrato da fattori di origine antropica. Insieme all’eutrofizzazione del mari (la mancanza di ossigeno), l’acidificazione e la salinificazione (tutte gravi alterazioni della composizione delle acque degli oceani), il riscaldamento globale influisce pesantemente sulle caratteristiche fisiche e biogeochimiche degli oceani, determinando nell’arco di pochi decenni la compromissione dell’80% della superficie oceanica: un disastro ambientale che se non arginato in tempo avrà delle drastiche conseguenze sulla vita di una persona ogni sette, vale a dire su più di un miliardo di individui nel mondo.

Scelte per curare i mari

La Terra è coperta per più del 70% dalle acque degli oceani e dei mari; un quarto della popolazione mondiale trae dalla pesca le proteine fondamentali per la propria dieta, il 20% basa l’economia nazionale sui profitti della filiera ittica, senza contare che le acque, mantenute nel loro equilibrio chimico fisico, regolano le funzioni atmosferiche, assorbendo e immagazzinando l’anidride carbonica disciolta dell’aria.

Per questo motivo è agghiacciante pensare che, accumulando il 90% del calore terrestre, la temperatura dei mari è aumentata del 13% più velocemente di quanto non fosse previsto dalle proiezioni degli anni scorsi, raddoppiando il tasso di riscaldamento delle acque dagli anni ’90 a oggi.

Il quadro sugli oceani che arriverà alle generazioni future e la condizione che deriverà dal rapporto tra la comunità umana e l’ambiente marino dipendono dalle decisioni, dai provvedimenti e dalle iniziative che in questo momento siamo ancora in grado di prendere.

Karen Blixen scriveva che “la cura per ogni cosa è l’acqua salata: il sudore, le lacrime o il mare”; oggi, la cura per gli oceani sono le nostre scelte.

Ilaria D’Ambrosi

Aprile 2017

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