Un libro ci svela come vivevano gli italiani del passato a partire dalla tavola
Per uno stile di vita equilibrato e sostenibile non si può prescindere, lo sappiamo, da una sana e corretta alimentazione, come ci insegna la famosa piramide della dieta mediterranea: tanta frutta e verdura da consumare quotidianamente, consumo moderato di carne e pochi dolci.
Il cibo, oltre che essere fonte di benessere e uno dei tanti piaceri della vita, può insegnarci molto anche sullo stile di vita delle popolazioni, persino sulle relazioni sociali e sullo stato economico di una nazione. Chi l’avrebbe mai detto? Una tavola imbandita, se scrutata con attenzione, riserva molte sorprese e dati interessanti, quasi quanto un libro di storia.
È quello che emerge dalla lettura di “A tavola! Gli italiani in sette pranzi”, un’analisi minuziosa dei consumi nel nostro Paese dall’Ottocento fino a oggi, condotta con scrupolosità da Emanuela Scarpellini, professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Milano.
Chi tutto e chi niente
Emanuela Scarpellini interroga le tavole degli italiani del passato e ne emergono così dettagli preziosi. Proprio quello che la dieta mediterranea ci vieta, ovvero un consumo sconsiderato di carne – specialmente carni rosse – era un bene quasi indispensabile nelle dimore dei nobili, che non a caso finivano per ammalarsi di gotta. Le carni costituivano una ghiottoneria imprescindibile. I poveri, dal canto loro, non potevano permettersi molta carne, anzi: le galline era meglio conservarle per le uova, piuttosto che ucciderle e le vacche potevano invece rifornire di latte. Le famiglie povere vivevano soprattutto dei prodotti della terra, frutta e verdura, quindi si può ritenere che mangiassero persino meglio dei membri delle classi agiate, ma attenzione: loro erano colpiti da un problema ben più grave, ovvero la sottonutrizione. Questo almeno fino agli anni della Seconda guerra mondiale.
Alla riscoperta delle tradizioni culinarie del passato
Il libro di Emanuela Scarpellini che, dati alla mano, elabora una vera e propria “storia dei consumi” del Belpaese, fa però affiorare anche riflessioni più profonde.
L’abbondanza di cibo a cui la globalizzazione ci ha abituati, a partire dal secondo dopoguerra anche come conseguenza dello straordinario boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, ci ha fatto perdere la consapevolezza dell’alimento stesso, il suo vero valore. Siamo abituati a avere tutto e subito.
Fino a mezzo secolo fa tutta questa abbondanza di prodotti, che trova espressione nel supermercato o nel shopping center (luoghi moderni di una vera e propria “spettacolarizzazione della merce”), era una utopia.
Non che avere tutto ciò che serve a disposizione sia un male; però riscoprire l’importanza del cibo, magari attraverso una rivalutazione delle produzioni locali, testimonianze di un preciso passato culinario, o dei prodotti a chilometro zero – su cui già puntano diversi percorsi turistici e strutture ricettive – può essere una grande esperienza culturale (per non perdere la memoria delle antiche tradizioni) e, perché no, anche salutare.
Mangiare riflettendo
«Dimmi come mangi e ti dirò chi sei»: benestante, povero, una via di mezzo… Oggi la disponibilità di alimenti, unitamente ai bassi prezzi, ci ha reso tutti un po’ uguali, ha creato – per così dire – una situazione democratica. Bene.
Ma non dimentichiamo che ogni cosa ha un suo perché, una sua storia, che magari ci svela un passato fatto di stenti e di privazioni, e un suo valore. Persino un fumante piatto di spaghetti.
Lorenzo Dell’Onore