A Glasgow la COP 26 sul clima rivela il divario tra partecipazione e ambizioni da un lato e soluzioni condivise tra paesi ricchi e poveri dall’altro. Mancano impegni vincolanti
Si è tenuta a Glasgow, in Scozia, la 26esima conferenza degli Stati firmatari della convenzione Onu sul clima (Cop26). Presenti circa 120 tra capi di Stato e di governo (che partecipano al World Leaders Summit) e delegati di duecento Paesi. Un appuntamento molto atteso. Ma i primi giorni di lavori sembrano deludere le aspettative. A dirlo non solo gli attivisti ambientali scesi in piazza in tutta Europa: quella scozzese rischia di essere un’occasione persa.
Scriviamo queste brevi note prima che la COP26 si sia conclusa e quindi potremmo avere un risultato finale diverso da quello che si intravede e che già era stato il risultato del G20 di Roma: pur augurandoci un colpo di scena non ci aspettiamo dai documenti ONU grandi prese di posizione. Bisogna accontentarsi delle dichiarazioni, come il fatto che tutti i paesi – pur con distinguo – si rendono conto che bisogna agire entro la metà del secolo o il fatto che tutti concordino con il taglio ai sostegni ai combustibili fossili, auspicando che non rimangano poche parole sulla carta. Purtroppo il percorso ad oggi non porta nella direzione che auspichiamo, nonostante COP26 si stia rivelando un grandioso momento di partecipazione da parte della società civile con tutte le sue gradazioni.
Da una parte i 100mila che si sono presi le strade di Glasgow, sotto una pioggerellina gelata, per dire che il tempo giusto per agire era “ieri”. Oggi siamo in ritardo. Domani la deadline sarà stata sorpassata e le conseguenze saranno inarrestabili. Una manifestazione importante che ha visto confluire i movimenti ambientalisti, quelli dei giovani, quelli del femminismo, quelli delle popolazioni indigene.
Un’irruzione dei colori della vita in una trattativa difficile, spesso astratta e tecnica. Insieme ai 100 mila quest’anno è cresciuta numericamente ed economicamente la presenza dei settori green dell’industria tra cui l’interessante novità delle assicurazioni e dei fondi d’investimento che lentamente (troppo lentamente) stanno spostando i loro asset strategici.
Dall’altra parte, tra gli accreditati, ben 503 persone con legami con il settore dei fossili. Per fare un confronto, il Brasile, che ha il numero più alto di delegati tra i Paesi invitati, ha accreditato 479 rappresentanti.
I rappresentanti del settore dei fossili alla COP26 stanno mettendo in campo un’azione di lobbying come poche volte si è vista, cercando di inserirsi nei dibattiti e nelle scelte. Numeri importanti sia da parte di chi cerca di spingere i “grandi del mondo” per portarli a prendere decisioni immediate, sia da parte di chi cerca di procrastinare il più possibile.
Il ritorno degli Usa? Assenza di Cina e Russia
Tra gli eventi sicuramente più rilevanti della COP il rinnovato impegno degli Stati Uniti che, dopo il nuovo cambio di guida, stanno spendendo una parte importante del proprio peso per ritornare protagonisti di una nuova stagione di innovazione, ma allo stesso tempo portano avanti non poche ambiguità soprattutto nel campo del shale gas e shale oil. Durante la COP è sceso in campo lo stesso Obama interpellato con un tweet da Vanessa Nakate. "Quando avevo 13 anni, nel 2009, avevi promesso 100 miliardi di dollari per finanziare la lotta al cambiamento climatico. Gli Stati Uniti hanno tradito le loro promesse, questo costerà perdite di vite umane in Africa" ha scritto la giovane attivista postando un video di 12 anni fa in cui l'allora presidente Barack Obama interveniva alla Cop15 assicurando politiche per combattere il cambiamento climatico. "Il paese più ricco della Terra non contribuisce abbastanza ai fondi salvavita. Tu vuoi incontrare i giovani della COP26. Noi vogliamo i fatti".
E l’ex presidente ha risposto: "Avete ragione a essere arrabbiati, la mia generazione non ha fatto abbastanza. L'energia più importante di questo movimento viene dai giovani. Il tempo sta scadendo: abbiamo fatto significativi progressi dall'accordo di Parigi, ma dobbiamo fare di più. Siamo lontanissimi da dove dovremmo essere. È stato particolarmente scoraggiante - ha proseguito l’ex presidente degli Stati Uniti - vedere i leader di due dei più grandi emettitori, Cina e Russia, declinare persino di partecipare al programma, e i loro piani nazionali riflettere quello che appare essere una pericolosa assenza di urgenza, un desiderio di mantenere lo status quo, da parte di entrambi quei Paesi. Questa è una vergogna.
Abbiamo bisogno che economie avanzate come Usa ed Europa guidino su questo problema, ma abbiamo bisogno anche di Cina e India, Russia e Indonesia, Sudafrica e Brasile. Non possiamo permetterci nessuno ai margini".
Il diritto a inquinare delle economie emergenti
I temi centrali di COP26 stanno qua: il ruolo delle economie “emergenti”, ancora ferocemente ancorate ai combustibili fossili e al desiderio di raggiungere lo sviluppo economico dell’Occidente e, su tutto, la mancanza di coerenza tra annunci e azioni. Tanto per fare un esempio: ha poco senso annunciare che verranno messi a dimora degli alberi per assorbire le emissioni di CO2 già presenti in atmosfera se non si garantisce a questi alberi di poter crescere per almeno 50 anni e se nel frattempo non si mette freno a nuove emissioni. Al tempo stesso c’è chi chiede di ricalcolare i crediti forestali ma, chiaramente, ogni qual volta si toccano i portafogli, le cose si complicano ulteriormente.
La credibilità di COP26 si gioca molto anche sul fronte mediatico: è stata posta molta enfasi da parte dei media sul fatto che i partecipanti al G20 di Roma si siano spostati a Glasgow con 400 jet o che Boris Johnson si sia mosso da Glasgow a Londra in aereo dopo aver tenuto un discorso roboante e pieno di buone intenzioni. E nel frattempo c’è chi si è affrettato a ricordare a Greta Thunberg che lei ha 13 milioni di follower ma che Kylie Jenner - la modella ed imprenditrice - ne ha 279 milioni. Come si può vedere è molto facile che intorno all’evento ci sia un brusio di fondo che sposta l’attenzione verso banalità, ma queste non devono distogliere dall’importanza dell’incontro.
E ogni giorno, mano a mano che si affrontano i diversi temi, emergono aspetti nuovi: un gruppo di Paesi africani ha richiesto un volume di finanziamenti da 700 miliardi di dollari all'anno per sostenerli nelle politiche di lotta e adattamento ai cambiamenti climatici. Ma, al momento, chi si era impegnato a farlo non ha ancora pagato nemmeno i fondi di compensazione che erano stati stabiliti negli accordi di Parigi.
A cura di Legambiente Bergamo