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Addio a Mandela, il padre della lotta all’apartheid

Addio a Mandela, il padre della lotta all’apartheid

Il Premio Nobel per la pace ed ex presidente del Sudafrica è morto a 95 anni dopo una vita spesa per la libertà

“Quando una stella muore, fa male” canta Giorgia e così è stato per Nelson Mandela. La sua morte ha commosso il mondo almeno quanto ha saputo fare la sua vita. Per giorni quel nome è risuonato da un capo all’altro del pianeta, fino alla cerimonia presso lo stadio di Johannesburg quando anche il cielo ha pianto. Perché uno come Madiba non si vorrebbe perdere mai, neanche a 95 anni, nemmeno se il secolo di cui è stato protagonista ormai se n’è andato.

Oggi circa il 40% dei sudafricani è nato dopo il 1994, l’anno delle prime elezioni libere, e in Europa l’apartheid è solo un capitolo drammatico nei libri di storia. Forse ci eravamo un po’ illusi che uno come lui, convinto che “l’uomo resta sempre padrone del suo destino, capitano della sua anima”, sarebbe stato immortale. Pensavamo che la morte gli sarebbe andata incontro e poi sarebbe passata oltre, come era stato per la prigionia, il rancore e la sete di vendetta . Pensavamo fosse come l’impala, il suo animale preferito che “supera gli ostacoli con grazia”.

Da una capanna al carcere a Presidente del Sudafrica

Nato nel 1918 in una capanna nel villaggio rurale di Mvezo, a 9 anni Mandela perse il papà, a 25 si laureò in Giurisprudenza e divenne leader dell’African National Congress, guidando le manifestazioni di protesta e il boicottaggio dell’apartheid che voleva bianchi e neri separati perché diversi. Lo arrestarono per la prima volta nel 1952, lo rilasciarono e poi tornò in carcere. Anni dopo in un discorso divenuto storico si difese così: «Nella mia vita mi sono battuto contro la dominazione bianca, e mi sono battuto contro la dominazione nera. Ho creduto nell’ideale di una società democratica e libera, in cui tutti possano vivere insieme in armonia e con uguali opportunità. È un ideale a cui spero di dedicare la vita, ma se necessario è un ideale per cui sono pronto a morire». E a quelle parole rimase fedele.

Condannato all’ergastolo, trascorse 27 anni in una cella: il numero 466/64 sul braccio, le giornate a spaccare pietre e le orecchie tese al mondo. Tornò l’11 febbraio 1990, ingrigito e libero dopo che la campagna internazionale e le pressioni interne portarono il governo di F. W. de Klerk a scarcerarlo. «Il passato è passato», sentenziò, e tese la mano ai suoi oppressori, perché non era «il momento di stupide vendette, ma quello di costruire un Paese». Come disse nel 1994, l’anno della sua elezione alla presidenza del Sudafrica, era tempo di «gettare fucili e coltelli nell’oceano» e «guardare finalmente al futuro» della Nazione arcobaleno.

Il Nobel per la pace e l’addio alla politica

La sua politica di riconciliazione, che nel 1993 gli valse con Klerk il Premio Nobel per la pace, non bastò a proteggerlo dalle critiche. «È uscito di prigione cambiato» disse qualcuno. «Ha accettato che i neri fossero messi ai margini» dissero altri e fra quelle voci suonò forte quella della sua seconda moglie Winnie che l’avrebbe poi abbandonato. Ma lui andò avanti e realizzò quello che pochi, pochissimi osavano sperare: il passaggio senza spargimento di sangue e collassi economici dal regime dell’apartheid a una democrazia in cui convivono bianchi, neri, meticci e indiani. Dirà l’amico arcivescovo Desmond Tutu: «Senza di lui non ce l’avremmo fatta». A fine mandato, dopo soli cinque anni di presidenza e quando ormai era una star dalle camicie stravaganti e dalle amicizie internazionali, lasciò la politica:

«Non cercatemi. Mi farò vivo io». Un gesto impensabile in Europa, dove da decenni si alternano i soliti volti, e ancor più in Africa, dove i leader, fra violenze e corruzione, mantengono a lungo il potere. Nel 2004 si ritirò dalla vita pubblica e si rifugiò fra le colline della sua infanzia, le stesse dove lo hanno raggiunto la malattia e poi la morte. Da lì, alla notizia della sua scomparsa, si sono levati canti di ringraziamento e lacrime che, come fasci di luce, hanno invaso il mondo intero. Perché “quando una stella muore, fa male”, ma la sua luce continua a brillare. O almeno vogliamo credere che sia così.

Michela Offredi

 

Il Sudafrica orfano di Madiba

Scomparso Mandela, il Paese sudafricano si trova ora ad affrontare nuove sfide economiche e politiche.

Qualcuno l’ha definito “l’ultimo inatteso miracolo” di Mandela, altri hanno minimizzato, ma è indubbio che la cerimonia allo stadio di Johannesburg sarà ricordata anche per questo: la stretta di mano fra Barack Obama e Raul Castro. Quasi fosse necessaria la morte di Madiba per avvicinare, anche solo per un istante, due storici nemici. Cortesia a parte, quello del primo presidente nero degli Stati Uniti è apparso come un gesto per omaggiare il primo presidente nero del Sudafrica: «Non potrei immaginare la mia vita politica senza di lui. Resterà per me un faro, finché vivrò».

La questione fra Stati Uniti e Cuba, in un mondo orfano di Mandela, rimane aperta, ma non è la sola. Perché il Sudafrica, superato l’apartheid e raggiunti importanti obiettivi durante la presidenza di Mandela, come la crescita della ricchezza media personale e il tasso di alfabetizzazione, oggi deve confrontarsi con la crisi mondiale e con nuove difficoltà come il tasso di diffusione dell’HIV che rimane allarmante. E se fino a ieri il Paese ha sonnecchiato, sotto lo sguardo rassicurante seppur passivo di Madiba, ora il risveglio rischia di essere brusco.

L’economia del Sudafrica, che con Brasile, Russia, India e Cina figura nei BRICS, il gruppo delle potenze economiche emergenti, resta la più grande del Continente nero, ma non quella che cresce di più: in Nigeria aumenta del 7% l’anno, mentre a Johannesburg non si raggiunge più nemmeno il 3%. Il tasso di disoccupazione nazionale supera il 25% e le disuguaglianze sociali sono sempre più accentuate.

E se sul fronte economico la situazione appare preoccupante, su quello politico le cose non sembrano andare meglio. L’African National Congress (ANC) appare un partito in preda al caos e alla corruzione, orfano di una figura morale e politica anche solo lontanamente paragonabile a quella del suo “Capitano”. L’attuale presidente Jacob Zuma, che attende con preoccupazione le elezioni del 2014, è accusato di aver sottratto 20 milioni di dollari di fondi pubblici per la sua casa di lusso e ai funerali di Madiba è stato fischiato dalla popolazione. A vent’anni dalla vittoria di Mandela e in un Paese dove la maggior parte dei votanti non ha conosciuto l’apartheid, la fedeltà al partito non è più garantita.

 

Gennaio 2014

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