I dati forniti dal Ministero suggeriscono un cauto ottimismo, ma la riforma convince solo in parte
Attenendoci ai numeri ufficiali, il 2015 può essere tranquillamente considerato l’anno di grazia dei musei italiani: «Circa 43 milioni di persone hanno visitato i luoghi della cultura statali generando incassi per circa 155 milioni di euro che torneranno interamente ai musei attraverso un sistema premiale che favorisce le migliori gestioni e garantisce le piccole realtà. Per la storia del nostro Paese è il miglior risultato di sempre, la crescita dei visitatori e degli incassi è significativa: +6% i visitatori, +14% gli incassi, +4% gli ingressi gratuiti».
Queste le ragguardevoli stime riportate da un radioso Dario Franceschini, Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo. L’exploit si accompagna alla riforma promossa dal MIBACT, entrata da poco nella sua seconda fase operativa (la prima sancì l’autonomia tecnica, scientifica e contabile dei 20 maggiori musei nazionali) che condurrà alla formazione dei Poli Museali Regionali, eredi delle ormai vetuste, innumerevoli soprintendenze per quel che concerne la designazione dei direttori.
Così come prevede il modello dell’ICOM (International Council of Museums), a cui i legislatori si sono ispirati, i musei pubblici dovranno poi dotarsi di uno statuto e articolarsi in aree di professioni: accanto alla figura dirigenziale verrà nominato un curatore e conservatore delle collezioni nonché un responsabile dei rapporti con il pubblico dedito al marketing e al reperimento dei fondi, figura cardine di un nuovo ordinamento ispirato a standard di matrice anglo-americana.
Gli interventi pianificati mirano a snellire l’elefantiaca macchina burocratica a capo del nostro patrimonio integrando la struttura statale con il know-how commerciale dei privati, liberi di insediarsi nei consorzi museali secondo le indicazioni dei direttori.
Se da un lato questo adeguamento alle richieste del mercato ottimizzerà gli utili valorizzando il “prodotto”, dall’altro rischia di piegare agli interessi degli stakeholder i principi fondativi di ciò che resta pur sempre “un’istituzione senza scopo di lucro al servizio della società e del suo sviluppo” (è ancora l’ICOM a ricordarcelo).
Nemmeno la nouvelle vague federalista incarnata dai suddetti Poli è priva di ombre: comuni e regioni godranno di una sovranità mai esperita e l’incognita dell’invadenza politica a scapito dei saperi tecnici diverrà un tema su cui pare doveroso riflettere per tempo.
Tornando invece alle ragguardevoli cifre sbandierate dal Ministero non possiamo esimerci dal precisare che stiamo assistendo a un vero e proprio fenomeno di oligopolio: il 50% dei visitatori viene infatti assorbito dal 5% dei musei. Pochi offerenti sequestrano gran parte della domanda, dunque per ogni Pinacoteca di Brera registriamo la sofferenza di molte piccole realtà, al netto del prestigio oggettivo delle loro collezioni.
Viene facile immaginare come gli investimenti dei privati favoriranno ulteriormente le inflazionate eccellenze, garanti di ritorni economici ingenti, mentre il museo etnografico della propria provincia, ad esempio, potrebbe patire ancor di più la sua marginalità (lo scabro gergo pubblicitario parlerebbe di effetto branding).
A tal proposito non dimentichiamo che ogni anno circa il 72% degli italiani evita accuratamente di recarsi a una qualsiasi mostra, una diserzione inaudita, rimediabile solo attraverso la didattica specializzata e una auspicabile collaborazione con le scuole. Non basta allora pensare di riscuotere semplicemente dei diritti d’autore dallo smisurato giacimento artistico a cielo aperto che l’Italia si ritrova a essere perché il mouseion, inteso come luogo caro alle muse, richiede cura e una seria progettualità a lungo termine.
La riforma muove da una volontà di rinnovamento sì costruttiva ma con enormi margini di miglioramento. Attendiamo fiduciosi?
Davide Albanese