Editoriale
Per costruire la pace occorre lavorare ad una capacità collettiva di gestione condivisa della forza, parallela alla realtà attuale dominata dagli stati sovrani
A questo si aggiunge l’aggravante di non riuscire nemmeno a limitare gli effetti devastanti e le disastrose conseguenze umanitarie che migliaia di persone, a volte intere popolazioni, sono costrette a subire inesorabilmente.
Di fronte alla palese debolezza della diplomazia e del diritto internazionale, è inevitabile pensare che solo la forza, o la minaccia della forza, possa risolvere o contenere i conflitti. Lo stesso vale anche per la sua versione più “nobile”, ossia quando l’uso o la minaccia della forza vengono indicati come strumenti di difesa o di sostegno alle popolazioni aggredite o oppresse.
Essere forti, potenti, attrezzati militarmente e tecnologicamente, appare, in ogni caso, la condizione unica ed essenziale per far valere una qualsiasi azione, offensiva o difensiva, sbagliata o giusta che sia.
Ma chi ambisce alla pace, chi ripudia la guerra, come fa a convincere gli altri a desistere da un conflitto armato o da una rivendicazione, dal momento che le altre forme di persuasione, ivi comprese le sanzioni economiche, sembrano funzionare gran poco?
Un sistema internazionale che punti alla pacifica convivenza di popoli e nazioni non può prescindere dal considerare la forza come un elemento congenito e permanente delle società, delle relazioni fra stati e fra individui. Ma il focus non deve vertere sulla necessità o meno di detenere singolarmente tale forza, per farne un elemento discriminante o di superiorità degli uni sugli altri. Il focus, per chi desidera la pace, va spostato sulla sua gestione, la questione dirimente diventa la capacità di un sistema composto da più attori di poter controllare, gestire e orientare l’uso collettivo della forza, nel modo più allargato e concordato possibile. E auspicabilmente, in prospettiva, in modo condiviso e regolamentato, con la finalità, oggi lontanissima, di poterne circoscrivere l’uso in ambiti sempre più ristretti.
L’obiettivo di chi vuole costruire la pace pertanto non è cercare di annullare le forze in essere (militari e non) o ipotizzare un futuro senza rivendicazioni o potenziali conflitti, poiché la situazione de facto andrà sempre oltre il nostro controllo e la nostra volontà.
Preparare la pace è piuttosto lavorare per costruire la capacità e le condizioni, non dei singoli stati ma del sistema internazionale, perché questo possa gestire in modo sempre più condiviso e regolamentato l’utilizzo della forza. Un percorso, inevitabilmente lungo e di prospettiva, ma senza alternative, se non quella che saranno sempre i più forti a imporre le proprie volontà, con conseguente rincorsa (infinita) a rafforzarsi sempre più degli altri.
Spostare l’obiettivo dal detenere la forza a costruire un sistema collettivo di gestione della forza dev’essere la missione di chi non si vuole rassegnare all’homo omini lupus dello stato di natura. Un percorso che per un lungo periodo dovrà necessariamente coesistere e crescere in parallelo ad una sistema di relazioni internazionali in cui l’uso della forza rimarrà saldamente in capo agli stati sovrani.
Ma osservando le evoluzioni dei decenni passati, è possibile scorgere progressi, nel concreto ancora timidi e poco efficaci, ma in linea di principio essenziali e rivoluzionari, perché dimostrano che da parte di alcuni attori c’è consapevolezza della necessità di avviare questo percorso tendente a cedere quote di influenza (non ancora sovranità) a organismi sovrannazionali (sia continentali che internazionali) e lavorare per realizzare le condizioni necessarie affinchè nel tempo questi organismi assumano sempre più autorevolezza, ascolto e influenza, con l’obiettivo di limitare sempre più, se non i conflitti quanto meno una loro escalation e le conseguenze più nefaste sulle popolazioni civili.
È l’esatto contrario di quello che sta succedendo in questi mesi, nei quali non sembra esserci limite o controllo alla prepotenza del più forte. Ma proprio per questo, avendo chiaro sotto gli occhi i risultati che non vorremmo mai vedere, è possibile, per contrarietà, comprendere altrettanto chiaramente l’urgenza di provare a percorrere vie alternative. La pace non può essere una condizione di fatto, ma un continuo percorso che sappia incanalare e far percepire a sempre più attori che la sicurezza, la difesa, la tutela dei singoli stati, dei diritti dei popoli e delle persone, è di gran lunga maggiore per tutti, solo se è incardinata in un sistema di sicurezza collettivo, tanto più efficace quanto più allargato e condiviso possibile.
Diego Moratti