La giornalista Stefania Prandi racconta l’inferno delle lavoratrici italiane e straniere, impegnate in Italia, Spagna e Marocco nella raccolta e nel confezionamento di frutta e verdura.
Cosa si nasconde dietro ai pomodori, alle fragole e ai frutti rossi che arrivano sulle nostre tavole? Turni estenuanti, salari da fame, ore sotto il sole, ma anche ricatti, violenze, stupri. Lo denuncia il libro di “Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo” (Settenove Editore) della giornalista e fotografa Stefania Prandi, ospite qualche settimana fa dell’Istituto comprensivo di Sant’Omobono Terme (Bg) per una serata con la popolazione e una mattinata riservata agli studenti delle medie.
Il libro, così come la mostra fotografica che lo accompagna, è il risultato di un lavoro d’inchiesta e documentazione durato più di due anni, con oltre centotrenta interviste a lavoratrici, sindacalisti, associazioni. Il racconto si snoda fra Italia, Spagna e Marocco, tre tra i principali esportatori di ortaggi e frutta in Europa e nel mondo.
Ed è un pugno nello stomaco. «Da tempo mi documentavo sugli studi di genere e sulle discriminazioni che le donne subiscono nei posti di lavoro - ha spiegato la giornalista che collabora con Vice, El País, Al Jazeera -. Più studiavo, più mi rendevo conto che era ed è un fenomeno vicino a me, alle persone della mia vita. Per un po’ di anni mi sono chiesta come potessi combinare questo interesse con il mio lavoro».
Poi incappò in un reportage del collega Antonello Mangano. Il contenuto era sconvolgente: a Vittoria, in provincia di Ragusa, oltre 5 mila rumene (si tratta di stime perché non esiste un censimento) "sparse nella campagna" subivano ogni forma di violenza (anche stupri) sul luogo di lavoro. Il tutto nell’indifferenza generale (salvo poche eccezioni, come l’impegno di don Beniamino Sacco, citato nel libro). «Ho iniziato a leggere, - prosegue - a cercare articoli, a seguire il filone. La cosa sconcertante era ed è che in Italia, anche a Milano, arrivavano e tuttora arrivano, quei prodotti».
Il reportage sul campo
Nacque così il desiderio di andare in Sicilia per indagare. Dopo qualche settimana difficile, si aprì un varco nel muro di omertà e silenzi. Scrive: «Queste donne non soltanto vivono in catapecchie, magazzini, garage, baracche con tetti di plastica o eternit. A tormentarle c’è la violenza. Anche chi non ne ha fatto esperienza in prima persona, ha visto le molestie e i ricatti di capi e supervisori. L’abuso di potere è una pratica conclamata», in Sicilia ma non solo.
Ha proseguito le ricerche anche in Puglia, «dove si coltivano il 68% del totale italiano di uva da tavola, il 35% di pomodori e di olive, e il 30% di ciliegie». Anche lì «ribellarsi vuol dire perdere il posto di lavoro e non riuscire a trovarne uno nuovo. Inoltre, ci sono i caporali, gli intermediari che reclutano le donne attraverso le agenzie, trovano gli alloggi e spesso sono proprietari dei pullman che le portano da una provincia all’altra». Sono prigioniere, schiave del XXI secolo: hanno figli da mantenere, non hanno altri luoghi dove andare, spesso «denunciare è un miraggio».
Avviene così anche in Spagna e in Marocco. Il libro, anche per questi Paesi, racconta la sopravvivenza quotidiana, la resistenza, il coraggio delle denunce che, malgrado gli sforzi, cadono nel vuoto. «Il fenomeno non riguarda tutti i produttori di frutta e verdura, ma è molto diffuso - conclude Prandi -.
In forma minore si registra in Friuli per la raccolta dell’uva, ma anche in Calabria e in Campania, in Turchia, in Grecia. Il mio è solo un pezzo di ricerca, il tentativo di risvegliare dei dubbi». Dubbi che squarciano la tavola sulla quale mangiamo. E che invitano a una riflessione. Perché come dice padre Alex Zanotelli: «Oggi si può fare più politica tra i banchi di un supermercato che in Parlamento».
Michela Offredi