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Sale la febbre dell’oceano

Sale la febbre dell’oceano

Surriscaldamento e gas serra non sono un problema solo per l’atmosfera. A soffrirne sono soprattutto gli oceani, la cui cartella clinica rivela un malato grave da curare in fretta

Al mare sta «salendo la febbre» da almeno 30 anni e il paziente - dicono gli esperti - non dà segni di miglioramento. Anzi, secondo gli studi dell’organizzazione non governativa «Unione internazionale per la conservazione della natura» (Iucn), che si occupa di ambiente a livello globale, il 93 per cento del calore provocato dal fatidico effetto serra a partire dal 1955 è finito proprio negli oceani che si dimostrano dunque tra le prime vittime del cambiamento climatico.

A finire nella nostra acqua sono soprattutto i «gas serra»: anidride carbonica, metano e azoto vengono rilasciati quando bruciamo benzina o legname e inquinano sia l’atmosfera sia - cosa meno nota - gli oceani. Il risultato è che l’aria che respiriamo è più calda (e gli inverni più miti) ma aumenta anche la temperatura dell’acqua marina, con gravi conseguenze sia per l’uomo sia per piante e animali acquatici. Per far capire meglio il problema l’oceanografo della National oceanic and atmospheric administration Gregory Johnson ha spiegato al New York Times che è come se tra il 1971 e il 2010 i mari avessero assorbito l’energia di 140 miliardi di asciugacapelli rimasti accesi per 39 anni!

La valvola di sicurezza sta per scoppiare

In questo periodo l’oceano ha immagazzinato nelle sue acque la maggior parte dell’energia provocata dall’inquinamento, assorbendo molto più calore rispetto all’atmosfera e mettendo di fatto in salvo i continenti da un rapidissimo cambiamento climatico: senza gli oceani - dicono sempre i dati - nello scorso secolo il termometro della Terra sarebbe salito di 36 °C invece che di un grado.

Questa valvola di sicurezza però potrebbe non funzionare per sempre, come dimostrano gli ultimi anni di «caldo record», durante i quali i mari sono stati costretti a rilasciare l’anidride carbonica accumulata perché la loro superficie era veramente troppo calda per non evaporare.

Un’eccezione che - con il surriscaldamento progressivo delle profondità del mare - potrebbe diventare la regola. Nell’emisfero meridionale, le acque bollenti contribuiscono già allo scioglimento dei ghiacci dell’Antartide che a loro volta causano l’innalzamento del livello delle acque globale. Proprio a causa di questo fenomeno circa il 7 per cento della popolazione mondiale (soprattutto in Cina, India, Bangladesh, Vietnam e Indonesia) rischia di vedere la propria casa sprofondare nel mare; mentre per i prossimi 2000 anni si prevede che almeno 136 dei luoghi dichiarati patrimonio dell’umanità verranno sommersi, secondo quanto stabilito da un istituto di Potsdam (Germania).

Il caldo nemico di pesci e coralli

Ma non è finita qui: il caldo delle acque favorirà la nascita di fenomeni atmosferici distruttivi come tempeste e cicloni di cui abbiamo già chiare avvisaglie. Per lo stesso motivo si teme per la salute dei plancton, i microrganismi di cui si cibano pesci e uccelli marini e che sono alla base della catena alimentare, che stanno letteralmente scappando dall’equatore dove fa troppo caldo.

La loro fuga sta restringendo le zone di pesca e questo è un problema serio per l’alimentazione di miliardi di persone, tanto che si prevede che nel Sud-Est asiatico la pesca sia destinata a diminuire di un terzo entro il 2050, proprio quando servirà più cibo perché la popolazione mondiale toccherà quota 9 miliardi.

Già oggi nel Pacifico esistono oltre 400 «zone morte», prive cioè di forme di vita e questo numero potrebbe aumentare entro il 2030, soprattutto perché nelle acque ci sarà sempre meno ossigeno. A causa dell’innalzamento del termometro subacqueo, infatti, l’H2O rimane nella parte superiore degli oceani senza distribuirsi negli strati in profondità, togliendo nutrimento alle specie marine che abitano ai piani bassi.

Secondo gli studi, tra il 1960 e il 2010 gli oceani hanno perso il 2 per cento del loro ossigeno e a respirare a fatica sono soprattutto le acque dell’Artico e le parti settentrionali dell’oceano Indiano. Se diminuisce l’ossigeno, aumenta però l’anidride carbonica che nelle acque del pianeta ha raggiunto livelli da record. Qui il gas sta cambiando la composizione molecolare dell’acqua marina, arricchendola di ioni di idrogeno che rendono le acque più acide e dunque più inospitali per alghe e crostacei.

Cambiare stile di vita

Insomma, la cartella clinica del mare del pianeta rivela un malato grave che va curato al più presto per evitare l’apocalisse. Se governi e istituzioni non correranno subito ai ripari, entro la fine del secolo gli oceani, più caldi di 4 gradi, potrebbero addirittura sciogliere le riserve di metano congelato sui fondali, liberando un gas a effetto serra potentissimo.

Non a caso Inger Andersen, direttrice dell’Iucn, ha definito il problema degli oceani «la più grande sfida nascosta della nostra generazione».

Come cambiare le cose? A parole ci hanno provato tutti i Paesi del mondo fin dal 1992 quando - in una conferenza a Rio de Janeiro - firmarono un trattato sulla conservazione della biodiversità per ridurre al minimo il surriscaldamento degli oceani. Gli stessi obbiettivi sono stati ribaditi dieci anni dopo a Johannesburg; poi ancora il Gruppo di lavoro sul cambiamento climatico e le Nazioni Unite hanno fissato per il 2015 la data massima per cambiare le cose.

Sfortunatamente così non è stato e nel dicembre di tre anni fa, i grandi del mondo si sono ritrovati a Parigi per una conferenza sul clima: alla fine hanno firmato un accordo per limitare l’aumento di temperatura a 2°C rispetto al clima “naturale” della Terra dal quale però gli Stati Uniti si sono già tolti (anche se forse non in modo definitivo). L’impegno è enorme e significa che bisognerà immediatamente produrre energia senza rilasciare più neanche un grammo di anidride carbonica. Per cambiare le cose - gli esperti concordano - serve l’impegno di tutti: bisogna cambiare stile di vita, lanciarsi in pratiche di sostenibilità a livello di aziende, associazioni oppure semplicemente come singoli cittadini.

Ilaria Beretta

 
Giugno 2018

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