In questo numero: SPECIALE AGRICOLTURA con INTERVISTE A SEI ESPERTI DEL SETTORE
Lorenzo Berlendis - Già dirigente nazionale di Slow Food, autore e collaboratore editoriale
Secondo Lei, in estrema sintesi, quali ragioni hanno gli agricoltori alla luce delle recenti proteste svolte in Italia e in Europa e cosa invece non condivide delle loro rivendicazioni?
Il disagio del mondo contadino è una costante dentro il modello imperante di agrobusiness globale. Difficile rispondere linearmente perché, anche solo limitandoci al panorama italiano, le proteste hanno obiettivi di contenuto, destinatari, sfondo motivazionale e, perché no, anche ideologico assai differenti. Altrettanto diversificata è la composizione sociale dei soggetti. Fatico a chiamare contadino, nell’accezione che abitualmente attribuiamo a tale termine, un operatore che lavora per la maggior parte seduto su un macchinario da centinaia di migliaia di euro con il quale produce richieste di grandi committenti, posiziona i suoi prodotti sul mercato globale delle derrate alimentari, le ‘commodities’. Non mi torna accostarlo al medio o piccolo agricoltore, singolo o associato che vende, magari direttamente, i prodotti della terra o li distribuisce in un mercato a filiera corta. In entrambe i casi, tuttavia, i due ‘agricoltori’ sono soggetti a fluttuazioni dei prezzi, e dei margini, imponderabili e totalmente incontrollabili dal produttore stesso, essi sono parimenti vittima di aste al ribasso ed economie di scala, dove la riduzione dei costi è sempre a carico del produttore primario.
Il tema che accomuna la grande e la piccola agricoltura, a ogni latitudine, principale causa del comune disagio, è l’infinitesima percentuale percepita dal produttore rispetto al prezzo finale del prodotto. Vale anche nel caso di chi venda autonomamente, questi ha necessità di contenere i prezzi e svalutare il lavoro proprio e dei collaboratori, per ‘stare sul mercato’. Trovo, per i motivi chiariti di seguito, impregnato di strumentalità (eterodiretta?), sciocco e autolesionista l’attacco di una parte del movimento dei trattori al Green Deal e alle misure di protezione di ambiente e salute dei cittadini.
C’è un livello macro, globale, che concerne coltivazioni, allevamenti e trasformazioni industriali per un sistema alimentare organizzato su scala mondiale (comprese distribuzione e logistica) e un livello micro di agricoltura, spesso più tradizionale, legata alle specificità del territorio e a pratiche di comunità. Come possono convivere?
La coesistenza di modelli, filiere e figure drasticamente difformi è tema assai delicato. È bene ribadire che occuparsi di cura del territorio e cibo attraverso la rigenerazione di suoli, cicli e biodiversità, apporto limitato di input energetici, segnatamente fossili, in contesti comunitari è pratica diametralmente opposta alla produzione di cibo-commodity, merce tra le merci, dentro a meccanismi inattingibili. La sovranità alimentare, di cui si sente spesso straparlare, sta tutta nel primo caso, ossia nell’approccio agro-ecologico.
Quali sono i tre obiettivi e iniziative prioritarie, sia legislative ma non solo, che le istituzioni pubbliche (europee e nazionali) devono perseguire per incidere su questo complesso sistema agroalimentare, a favore di tutti i cittadini?
Nel rombo dei mega trattori si è colta a fatica la voce degli agricoltori che si battono per una nuova agricoltura, come i membri di Confédération paysanne o Via Campesina, e pure di una buona fetta degli autoconvocati. Voci che chiedono “l’introduzione di prezzi garantiti per prodotti agricoli, la definizione di prezzi minimi d’ingresso nel territorio nazionale, il sostegno economico alla transizione agro-ecologica commisurato alle problematiche in gioco, la priorità alla creazione e non all’ampliamento delle aziende agricole, il blocco dell’artificializzazione dei terreni agricoli”, istanze presenti nel “Manifesto per la transizione agricola per affrontare la crisi”.
Penso anche alla marcia dei 10 mila di contadini punjabi verso Delhi, la liberalizzazione dei prezzi delle derrate alimentari li condanna alla fame. Rivendicano anche loro il “prezzo minimo di vendita”, ovvero una soglia minima, garantita dallo stato che rispetti la dignità del lavoro agricolo. Questi sono assolutamente gli strumenti e le misure prioritarie. I sussidi della Pac debbono sostenere la transizione verso un’agricoltura in grado di affrontare le sfide della crisi climatica e della biodiversità. È inaccettabile che nell’attuale Pac la minoranza di aziende agricole più grandi monopolizzi centinaia di migliaia di euro di aiuti pubblici, i nostri soldi, mentre la maggioranza degli agricoltori riceve solo le briciole. La premialità ha senso se va nell’interesse di tutta la comunità, dei cittadini tutti, non importa in quale ruolo si trovino.
Uno sguardo al futuro. Come vede l’agricoltura tra 10 anni? Quali i rischi o le minacce più grandi? Quali le opportunità da cogliere per un’evoluzione positiva del settore?
La concentrazione delle proprietà terriere e la costante diminuzione delle aziende agricole è più che una minaccia per la stessa democrazia, oltre che per l’ambiente, la salute, la qualità del cibo. Al pari del cartello tra industrie sementiere, chimiche e agroindustriali, il potere sul cibo viaggia sempre più in mano a pochi player globali. Vale anche per altri settori strategici, leggi l’energia, Il movimento dei trattori avrebbe dovuto marciare su Amsterdam, a suo tempo, altro che Bruxelles. Le colossali speculazioni della crisi energetica di qualche tempo fa partivano e partono da lì. Le opportunità da cogliere sono presto riassunte nel riportare l’agricoltura coi piedi per terra, dentro la terra attraverso la rigenerazione dei suoli e della biodiversità, dentro la danza di tutto il vivente. Vandana Shiva docet.