L’economista Andrea Di Stefano spiega come le materie prime alimentari diventano prodotti finanziari. E la chiamano agricoltura
Sei più quattro, uguale dieci big corporations. Bastano i nomi e le quote per comprendere la prima faccia della medaglia. Archer Daniels Midland, Bunge, Cargill e Louis Dreyfus dominano il mercato delle materie prime agricole (tra il 75 e il 90% di grano, soia e mais).
Basf, Bayer, DuPont, Dow, Monsanto e Syngenta detengono il 75% del mercato dell’agrochimica, l’altro pilastro di un sistema che rende insostenibile in tutti i sensi (economici, ambientali e sociali) la produzione alimentare a livello mondiale. Come in altri settori dell’economia globalizzata, per effetto della deregulation selvaggia degli anni ’80, anche nel comparto agricolo si è realizzata la peggiore delle concentrazioni: i leader incontrastati della produzione sono anche i principali trader sia finanziari che commerciali.
In parole povere detengono i silos contenenti grano, soia e mais da cui dipendono le principali filiere agroalimentari (allevamenti e conseguenti catene produttive derivanti dalle proteine animali), brevettano e vendono le sementi (Ogm e non), producono e commercializzano fertilizzanti e pesticidi.
Quanto accaduto nel 2008 con la mega speculazione innescata dalla crisi di Lehman Brothers è solo la punta dell’iceberg, che è stato costruito in meno di vent’anni di politiche di deregulation nella finanza e regulation nel comparto agroalimentare.
Un combinato disposto che nel 2008 è finito sotto i riflettori perché in soli diciotto mesi i prezzi dei beni alimentari sono cresciuti dell’80%, portando alla fame circa un miliardo di persone, quelle che normalmente vivono di un solo alimento base (grano, riso, mais o altro cereale).
I prezzi sono crollati nel 2009, durante il picco della recessione mondiale, per portarsi nuovamente a livelli record nel 2011.
Per capire questo fenomeno bisogna ricordare qualche numero: gli operatori che trattano i prodotti finanziari legati alle commodities agricole che non hanno alcun interesse ad acquistare il sottostante (cioè grano, mais, soia ecc.) rappresentano il 65% in volume dei contratti (erano il 12% solo quindici anni fa) e il volume delle transazioni è raddoppiato da 65 miliardi a 126 miliardi di dollari.
Player globali con i sussidi pubblici
L’altra faccia dell’insostenibilità del sistema è rappresentato dall’ammontare delle sovvenzioni elargite agli agricoltori: secondo una stima dell’Ocse si tratta di 601 miliardi di dollari l’anno ai quali bisogna aggiungere 135 miliardi per il sostegno ai servizi generali del sistema. Di questi 736 miliardi di denaro pubblico erogato, gran parte finisce nelle casse di quelle dieci big corporations.
La FAO stima che dalle importazioni di materie prime alimentari (le cosiddette commodities) si siano ricavati 1,09 trilioni di dollari nel 2013.
Il peso di queste compagnie condiziona tutte le fasi della filiera, in diversi modi. Se è vero che l’85% di tutti gli alimenti è consumato vicino a dove viene prodotto, i pochi soggetti in grado di trattare volumi elevati di materie prime per trasformarle ed esportarle dominano il commercio globale con una sproporzionata influenza sui prezzi, cui i produttori si devono piegare.
Tanto più che gli stessi lotti di soia, grano, mais ecc. possono essere fatti oggetto di più transazioni sul mercato finanziario attraverso una pletora di prodotti, dai vecchi futures ai più recenti e meno conosciuti Etf.
La finanza nel piatto
Dieci anni fa, dicono i dati della Banca dei regolamenti internazionali, i futures sulle materie prime (oro escluso) valevano 952 miliardi di dollari. All’ultimo aggiornamento il controvalore oltrepassava quota 2 trilioni. La proliferazione dei titoli esalta ovviamente la volatilità dei prezzi dei sottostanti, perché i derivati, ovviamente, servono in primo luogo a piazzare scommesse. Che, per le materie prime alimentari, negli ultimi anni, sono state orientate decisamente al rialzo.
Lo evidenzia il Food Price Index della FAO, un paniere che misura il costo delle materie prime alimentari. Negli ultimi 15 anni l’incremento evidenziato dall’indice è stato clamoroso: nel corso del 2008 il dato ha registrato il primo picco storico oltre quota 200 punti (+121% rispetto al valore del 2000) per poi andare incontro a un calo e a una successiva risalita fino all’aggiornamento del primato nel 2011 (229,9 punti, +156% rispetto al dato di inizio millennio).
Sull’esplosione dei prezzi pesano fattori “tipici” di domanda, come la crescita delle economie emergenti all’inizio del XXI secolo o lo sviluppo dei biocarburanti. Ma il fattore derivati ha accelerato i movimenti.
Nel giugno del 2008, nell’anno del primo storico picco delle food commodities e del petrolio, l’ammontare dei contratti futures sulle materie prime (metalli preziosi esclusi) aveva raggiunto, secondo l’analisi della Federal Reserve Bank of St. Louis, i 2,13 trilioni di dollari. In base a quanto dichiarato al Congresso degli Stati Uniti dall’hedge fund manager Michael Masters (fondatore della società Masters Capital Management LLC, di Atlanta, Georgia, un quarto di miliardo di dollari in asset gestiti), nell’aprile del 2008, in corrispondenza con i picchi dei prezzi, i fondi di investimento americani attivi nel settore avevano assunto il controllo del 35% di tutti i contratti futures sul mais presenti nel mercato.
Per la soia e il frumento, ricorda un rapporto della Ong britannica World Development Movement (WDM) citando la testimonianza di Masters, le percentuali salivano rispettivamente al 42 e al 64%. Il tutto, ovviamente, senza considerare i contratti over-the-counter, ovvero quelli scambiati nelle piazze finanziarie non regolamentate. Tra il 2010 e il 2012, ha sostenuto il WDM, le speculazioni di questo tipo avrebbero garantito ad appena cinque banche - Goldman Sachs, Barclays, Deutsche Bank, J.P. Morgan e Morgan Stanley - guadagni totali per 2,2 miliardi di sterline (pari a oltre 3 miliardi di dollari).
Andrea Di Stefano, Economista e direttore della rivista Valori