Diversi studi cercano di capire se esista un nesso tra trasmissione Covid e inquinamento atmosferico
In questi mesi ci siamo tutti interrogati sulla possibile correlazione tra inquinamento atmosferico e diffusione del Covid 19 e sul perché si sia diffuso così nell’area della Pianura Padana, risaputamente tra le più inquinate d’Europa. Può essere trasportato dalle particelle inquinanti? È più letale per le persone esposte più a lungo all’inquinamento?
Una ricerca italiana condotta da studiosi delle Università di Bari, Bologna, Milano e Trieste, insieme alla Società Italiana Medicina Ambientale (Sima), e rilanciata su tutti i media nazionali e internazionali ipotizza la trasmissione del virus attraverso il particolato, ovvero le particelle di inquinamento contenute nell’aria. Il condizionale è d’obbligo e una task force mondiale appositamente istituita cercherà di far chiarezza. Quel che però è noto ormai da anni è l’effetto deleterio dell’inquinamento atmosferico sull’apparato cardiocircolatorio.
In Italia anche l’aria è malata
Nel Rapporto annuale sulla qualità dell’aria pubblicato a fine 2019 dall’Aea (Agenzia Europea per l’Ambiente), l’Italia risulta essere il primo Paese dell'Ue per morti premature da biossido di azoto e il secondo per il particolato fine PM2,5, con un sistematico sforamento dei limiti di legge per i principali inquinanti atmosferici. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, gli inquinanti che hanno dimostrato di avere effetti sulla salute sono il particolato, l'ozono, il biossido di azoto e il biossido di zolfo. L’Italia è tra i primi Paesi per concentrazione di polveri sottili, al punto che Torino contende a Parigi e Londra il primato di città europea più inquinata da biossido di azoto; tra le città più piccole, invece, spicca Padova per l'alta concentrazione media di PM2,5 e PM10. La situazione non migliora nelle aree rurali, con superamenti dei limiti giornalieri di particolato registrati in 16 delle 27 centraline. Due milioni di italiani vivono in aree, soprattutto della Pianura Padana, dove i limiti Ue per i tre inquinanti principali sono continuamente violati.
Le ipotesi sul rapporto tra Covid e inquinamento
Alte concentrazioni di polveri fini per tutto il mese di febbraio potrebbero aver favorito un’accelerazione alla diffusione dell’epidemia nella Pianura Padana? Da questa ipotesi sono partiti due differenti studi di un gruppo di ricercatori della Sima con alcune Università italiane. Nel primo studio sono stati analizzati la correlazione fra la diffusione del virus SARS-CoV-2 nel nostro Paese e il numero di sforamenti di PM10 nel mese di febbraio, prima del lockdown, mettendo a confronto Nord e Sud.
L’ipotesi - ancora da verificare - è che le microgocce al di sotto dei 5 micron che vengono prodotte durante uno starnuto o un colpo di tosse vadano a formare degli aggregati con il particolato già presente nell’atmosfera, riuscendo così a raggiungere distanze più lunghe rispetto alla distanza di sicurezza. Il particolato potrebbe dunque fungere da trasportatore ed è il motivo per cui focolai più grossi si sarebbero verificati dove c’erano stati i maggiori sforamenti di PM10. Il secondo studio ha invece rilevato tracce del genoma del virus sul particolato atmosferico raccolto in due campionatori in provincia di Bergamo. Su una campionatura di 15 giorni, otto hanno dato risultati positivi al virus. Dunque il virus potrebbe viaggiare sulle polveri. Entrambi gli studi della Sima sono stati pubblicati in forma di bozza e le ipotesi vanno ancora verificate.
Un'altra ricerca di cui si è molto parlato è quella condotta dall’Università di Harvard, volta a capire se la lunga esposizione al particolato fine fosse associata a un aumentato rischio di morte per Covid-19 negli Stati Uniti e la conclusione sarebbe che “un piccolo aumento dell'esposizione a lungo termine a PM2.5 porta a un grande aumento del tasso di mortalità di Covid-19, nella misura di 20 volte in più rispetto al tasso usuale”. L’ipotesi dunque è che, poiché influisce negativamente sul sistema respiratorio e cardiovascolare, l'esposizione a lungo termine a PM2.5 possa anche esacerbare la gravità dei sintomi dell'infezione da Covid-19, aumentando così il rischio di morte.
Al via la task force
Capire l’eventuale nesso tra inquinamento dell’aria e mortalità del Covid è l’obiettivo del Gruppo di ricerca Rescop su Covid-19 e particolato, una task force internazionale costituita su proposta della Sima proprio per studiare la presenza del coronavirus sul particolato atmosferico delle città più colpite. Il team multidisciplinare è composto da clinici, epidemiologi, infettivologi, virologi, genetisti, chimici dell’ambiente, biochimici, tossicologi, ingegneri ambientali, modellisti e statistici provenienti da prestigiose Università di tutto il mondo. Oltre a Milano, Bergamo e Napoli, sono già in corso test indipendenti a Madrid, Barcellona, Bruxelles, Londra e New York. Il team verificherà la presenza del virus nel particolato e potrà eseguire possibili prove di vitalità e virulenza.
Ulteriore obiettivo dello studio è quello di individuare applicazioni in ambito preventivo, come l’uso dei test sul particolato quale indicatore precoce di future recidive epidemiche, oltre ad approfondire i modelli di diffusione del virus in relazione ai parametri meteo climatici e d’inquinamento. Anche a livello nazionale intanto l’Istituto Superiore di Sanità, Iss, e l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, Ispra, con il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente, Snpa, hanno avviato uno studio epidemiologico per valutare se e in che misura i livelli di inquinamento atmosferico siano associati agli effetti sanitari dell’epidemia e capire il ruolo dell’esposizione al particolato nell’epidemia nelle diverse aree del Paese. Questo studio epidemiologico segue l’avvio dell’altra iniziativa, Pulvirus, promossa da Enea, Iss e Ispra-Snpa, che valuterà le conseguenze del lockdown sull’inquinamento atmosferico e sui gas serra e le possibili interazioni fra polveri sottili e virus.
Un appello per la ripartenza
Quello dell’aria inquinata resta dunque, oggi più che mai, un problema da affrontare e risolvere in fretta. Per questo in una dichiarazione congiunta rilasciata il 26 maggio, 40 milioni fra medici e operatori sanitari da tutto il mondo hanno chiesto ai leader dei Paesi del G20 di impegnarsi concretamente nella lotta alla crisi climatica, perché per ripartire dopo il Covid serve un Pianeta sano e dunque investimenti nella salute pubblica, per aria e acqua pulita, riduzione delle emissioni climalteranti. Lo scopo è invitare i leader del mondo a ragionare per una ripartenza che metta al centro la salute umana, a cominciare da ciò che possiamo fare per creare una maggiore resilienza alle future pandemie, investire per una agricoltura sostenibile, per l'addio ai combustibili fossili a favore delle rinnovabili, per una mobilità a basse emissioni di carbonio. Insomma, forse è finalmente arrivato il tempo di cambiare aria.
Arianna Corti
Quali sono e da dove arrivano gli agenti inquinanti?
Con il termine "inquinamento atmosferico" si intendono tutti gli agenti fisici, chimici e biologici che modificano le caratteristiche naturali dell'atmosfera terrestre con conseguenze sulla salute dell’uomo e dell’ambiente. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, (Oms), gli inquinanti che hanno dimostrato di avere effetti sulla salute sono il particolato, l'ozono, il biossido di azoto e il biossido di zolfo. Il particolato è un aerosol di piccole particelle solide classificate in base alle loro dimensioni: PM10 quando il diametro aerodinamico medio è minore di 10 micron e possono raggiungere i polmoni e PM2,5 quando il loro diametro aerodinamico medio è inferiore a 2,5 micron e sono quindi ancora più pericolose.