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Arrovellarsi sulle trivelle

Arrovellarsi sulle trivelle

Il referendum del 17 aprile sulla durata delle concessioni per estrarre idrocarburi ci invita a prendere posizione

Ma la scelta è meno scontata di quanto possa sembrare

Ormai da diverse settimane, anche se spesso in sordina rispetto ad altre notizie, sono partite le campagne pro e contro trivelle. Il 17 aprile saremo chiamati a votare tramite referendum sulla questione. Di cosa si tratta esattamente? Fin troppo facile perdersi nella leggerezza degli slogan che inneggiano a immaginari apocalittici con gabbiani intrappolati da colate di petrolio e trivelle minacciose da una parte, e dall’altra lavoratori sul lastrico e il ritorno alle pietre focaie per il sacro caffè mattutino.

Sono nove le regioni che hanno richiesto il referendum (Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna, Veneto) con l’intenzione di fermare le trivellazioni e mettere fine alla ricerca e all’estrazione di petrolio e gas nei mari italiani, almeno entro il limite di 12 miglia nautiche dalla costa che definisce le acque territoriali.

Mentre già si profila uno schieramento netto, occorre soffermarsi più lungamente sul testo del quesito che ci verrà sottoposto onde evitare di sbarrare caselle sull’onda del sentimento comune. Il referendum riguarda la durata delle concessioni per estrarre idrocarburi; di norma trent’anni ma la compagnia concessionaria può chiedere una prima proroga di dieci anni e altre due di cinque ciascuna.

La legge di stabilità 2016 vorrebbe allungare una concessione in modo indefinito ed ecco quindi che il quesito ci chiede se vogliamo o meno abrogare la frase “per la durata di vita utile del giacimento”. Per rigore di cronaca, non si tratta quindi di impedire nuove trivellazioni, ma della possibilità per gli impianti già esistenti di continuare a operare fino a che i giacimenti sottostanti non saranno esauriti.

A prescindere dal referendum, secondo la legge già in vigore, all’interno delle 12 miglia non si possono effettuare nuove trivellazioni mentre fuori sì; il voto inoltre riguarda soltanto 21 concessioni che si trovano entro questo limite.

Quanto incidono le nostre risorse in termini di bilancio energetico?

Il gas che viene prodotto in Italia e che soddisfa circa il 10% del fabbisogno nazionale, per quattro quinti viene estratto dal mare, così come un quarto di tutto il petrolio presente in Italia.

In altri termini, secondo le valutazioni del Ministero dello Sviluppo Economico, le riserve certe nei nostri fondali marini ammontano a 7,6 milioni di tonnellate di petrolio e stando ai consumi attuali, coprirebbero il fabbisogno nazionale per sole sette settimane. Si arriverebbe a 13 mesi se contassimo anche le riserve su terraferma. I 53,7 milioni di metri cubi di gas, invece, incidono maggiormente sul nostro bilancio energetico.

› Le ragioni del SÍ

I promotori del referendum, sostenuti dalle principali organizzazioni ambientali come Legambiente e WWF ma anche da movimenti come No triv, ne fanno soprattutto una questione politica: votare sì rappresenterebbe un segnale forte per avversare le scelte energetiche che il governo sta portando avanti. Durante la recente Cop 21 di Parigi sul clima, l’Italia si è impegnata a intraprendere una “transizione” verso le energie rinnovabili per contenere il riscaldamento globale, eppure non ci sono segnali che facciano intendere un investimento in questa direzione.

Per quanto concerne gli effetti ambientali, i sostenitori del sì rimarcano che le tecniche adottate per le ricerche in mare sono invasive; viene utilizzato un “air gun”, fucile ad aria compressa che spara bolle d’aria ad alta frequenza sui fondali per provocare onde d’urto e l’impatto di questo trattamento sulla fauna marina è problematico. Nell’alto Adriatico inoltre c’è il rischio di “subsidenza”: estrarre il gas provoca un forte rischio che i fondali sprofondino e per la laguna veneta sarebbe il colpo di grazia.

Anche il turismo potrebbe risentirne: le piattaforme arrecherebbero danni al paesaggio compromettendo la bellezza della costa e la fruizione dell’area da parte dei visitatori. «Ma pensate che i turisti continueranno a venire se gli riempiamo il mare di trivelle?», chiedeva il presidente del consiglio regionale del Veneto, Roberto Ciambetti, presentando la campagna referendaria il 7 marzo scorso.

Altro punto dolente, la possibile perdita di posti di lavoro: Maurizio Marcelli, responsabile del dipartimento salute e sicurezza del lavoro della Fiom-Cgil sminuisce l’entità del problema affermando che le piattaforme hanno bisogno di manodopera solo nella fase di trivellazione, poi lavorano in remoto. E comunque l’organico perso sarebbe ampiamente compensato se si investisse nelle energie rinnovabili e in settori industriali compatibili.

› Le ragioni del NO

Il referendum non modifica la possibilità di compiere nuove trivellazioni oltre le 12 miglia e nemmeno la possibilità di cercare e sfruttare nuovi giacimenti sulla terraferma. Per i sostenitori del no questo implica che se gli impianti venissero dismessi prima del tempo le spese di ammortamento si farebbero più ingenti, perché l’impianto non verrebbe utilizzato per l’intera vita operativa per cui era stato progettato.

Per quanto riguarda i rischi ambientali, la comunità del no sostiene che continuare l’estrazione di gas e petrolio permetta di limitare l’inquinamento: disporre sul territorio di circa il 10% del gas e del petrolio che utilizziamo, evita il transito per i porti italiani di centinaia di petroliere ogni anno, oltre a rappresentare un baluardo di resistenza –almeno simbolica– all’egemonia delle super potenze energetiche, Russia ed Emirati Arabi in primis.

Gli impianti che saranno oggetto del referendum, inoltre, estraggono fondamentalmente metano, che è una fonte meno dannosa del petrolio e ancora per molti versi insostituibile.

Il legame tra trivelle e turismo? I dati circa un effettivo danneggiamento non sono stati dimostrati e un primo sguardo lascerebbe intuire che la connessione non sia propriamente immediata, visto che sia Emilia Romagna sia Basilicata (le regioni con il più alto numero di trivelle) sono quelle con il settore turistico più in salute.

La perdita di posti di lavoro non sarebbe invece da sottovalutare: secondo i sostenitori del no, migliaia di persone lavorano nel settore e la fine delle concessioni comporterebbe tagli netti all’organico. Nella provincia di Ravenna l’offshore impiega direttamente o indirettamente quasi settemila persone.

Votazioni senza esito

A fronte delle considerazioni fatte, prendere posizione è meno immediato del previsto. Occorre però fare chiarezza su un punto che entrambe le parti sembrano tralasciare: la nostra votazione, diversamente da come si è indotti a credere da slogan sbrigativi, non legittima né impedisce le trivellazioni in Italia, con tutti i pro e i contro che queste implicano. Come spesso accade, saremo chiamati a votare su un cavillo di una legge che già è in vigore, la cui permanenza o abrogazione non cambierà sostanzialmente lo stato di cose.

Sembra però che sia chi si indigna con gli striscioni del “vota SÍ”, sia chi scrive fumosi articoletti a favore del NO, si lasci travolgere dalla foga di un voto politico, che di politico dovrebbe avere ben poco. Questo tortuoso arrovellarsi su un comma, permette di distogliere l’attenzione dei più dalla vera questione, ovvero la mancanza di una politica a lungo termine a favore delle energie rinnovabili, rimasta sotto i riflettori giusto il tempo di un paio di strette di mani.

Mara D’Arcangelo

Aprile 2016

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