Se mangiare (consapevole) significa futuro
“Il mangiatore industriale non sa che mangiare è un atto agricolo, non conosce più né immagina i collegamenti che esistono fra l'atto di mangiare e la terra [...]. Quando il cibo, nelle menti di coloro che lo mangiano, non è più legato all'agricoltura e alla terra, si soffre di un'amnesia culturale pericolosa e fuorviante”. Così scriveva nel 2015 Wendell Berry, agricoltore e ambientalista, mettendo in guardia dai rischi del mangiare senza consapevolezza. Oggi, solo pochi anni più tardi, le frasi di Berry risuonano con un'eco ancor più ampia: sarà merito dei vari movimenti ambientalisti – Fridays For Future ed Extinction Rebellion in primis - che stanno nascendo dal basso in tutto il globo? Oppure sarà merito degli innumerevoli e pressanti moniti della scienza a un mondo ancora troppo spesso sordo alle messe in discussione dei nostri stili di vita?
Quello che è certo – e quello su cui convergono con sempre maggiore frequenza studi, dati numerici, analisi e prese di posizioni dell'attivismo civico – è la necessità di ripensarsi a partire dalle azioni concrete, quotidiane, indispensabili: e cosa definisce le nostre giornate e le nostre radici più del cibo? Cosa, quindi, può delineare il nostro stesso futuro più delle scelte che sapremo mettere in campo su questo tema? Ma forse la domanda più pressante è un'altra: saremo all'altezza di questa sfida?
Secondo la scienza, non potrà essere altrimenti: non fosse altro perché è dai consumi alimentari e dai processi connessi al cibo – coltivazione, allevamento, trasporto, trasformazione – che derivano oggi la maggior parte delle emissioni globali di gas climalteranti (il 29% del totale di emissioni prodotte in media da una persona nei paesi sviluppati). Cambiare i consumi alimentari e trasformarli in processi di scelta consapevole diventa quindi imprescindibile per poter cambiare le prospettive drammatiche che si stanno definendo in materia di clima. Non solo, è un imperativo anche per andare a ridurre quelle divergenze umanitarie che anche oggi continuano a spaccare il mondo in due: ricchi da una parte, poveri dall'altra.
Inutile nascondersi dietro un dito e “giocare a fare gli ambientalisti” senza considerare la posizione di privilegio dei nostri paesi rispetto alle fragilità globali che altrove noi stessi abbiamo generato e rispetto agli squilibri che – talvolta – anche le scelte più consapevoli possono acuire. Mentre noi ci riscopriamo affamati di alimenti “etici”, che ci permettano di ridurre il nostro consumo di carne e il conseguente impatto che ne deriva, c'è un altrove che di queste scelte paga pegno.
Un esempio su tutti: la quinoa, che da alimento base per le popolazioni andine è diventato bene di lusso più conveniente da vendere all'estero che da consumare a casa. Ciò che prima era sostentamento per intere aree sottosviluppate è diventato ora una nostra dieta “alla moda”. Ciò che prima era cibo e cultura locale, oggi è stata trasformata nel simbolo di un imperialismo alimentare travestito da etica: noi abbiamo scelto l'etica, lasciando a loro cibo spazzatura e cartelli criminali per la vendita dei vari “diamanti della tavola”. E lo stesso discorso può essere applicato a innumerevoli altri alimenti top nei nostri consumi consapevoli, sulle nostre tavole imbandite.
Certo, siamo consapevoli che appiattire un tema ampio come quello dell'impatto del cibo su clima, società e ambiente a una contrapposizione “noi” e “loro” è riduttivo. Ma, non solo in ottica di provocazione, ci chiediamo se anche questo possa aiutarci tutti a raggiungere l'unica soluzione possibile, quella auspicata da Berry così come da tutti i movimenti per il diritto al cibo: tornare alle radici, alla propria terra, al cibo che ha una storia da raccontare. E, con esso, riscoprire la nostra e quel legame – indissolubile – che ci permetterà di salvare il Pianeta.
Erica Balduzzi