L'iniziativa vuole sensibilizzare sui costi umani e ambientali della fast fashion, responsabile del 10% dell'anidride carbonica emessa nel mondo
Un mese intero senza comprare nulla di nuovo e scegliendo solo prodotti in seconda mano per i propri acquisti: a lanciare la provocazione, nel 2019, è stata l'organizzazione Oxfam, attiva per combattere la povertà nel mondo, che ha così inaugurato il “Second hand September”, letteralmente settembre di seconda mano, per sensibilizzare sulle problematiche di spreco, inquinamento e sfruttamento ambientale e umano insite nel mondo della moda in generale e della cosiddetta fast fashion in particolare.
Oggi, con la scarsità idrica estiva appena sperimentata e le problematiche energetiche e ambientali sempre più pressanti, l'iniziativa assume un valore ancora più attuale: davvero vale la pena abusare di risorse e materie prime per un settore che fa dello spreco e della violazione dei diritti le sue fondamenta?
Fast fashion, un'industria energivora e inquinante
Il mondo della moda, oggi, è uno dei più inquinanti dell'intero pianeta: una filiera produttiva che impatta più o meno direttamente sulla vita, la salute e i diritti di moltissime persone del mondo, nonché sull'ambiente e sulle risorse mondiali di vitale importanza, come acqua e terra. Secondo i dati del Programma Ambientale delle Nazioni Unite (UNEP), infatti, la fashion industry consuma ogni anno 93 miliardi di metri cubi d'acqua (pari al fabbisogno idrico di cinque milioni di persone) ed è responsabile del 20% dello spreco d'acqua su scala globale (a causa dei processi di tintura e trattamento delle stoffe). Non solo: l'87% delle fibre usate per l'abbigliamento viene smaltito in discarica o incenerito, ogni anno mezzo milione di tonnellate di microfibre plastiche vengono scaricate negli oceani (pari a 50 miliardi di bottiglie di plastica) e l'industria della moda è responsabile del 10% delle emissioni globali annuali di anidride carbonica: più di tutti i voli internazionali e le tratte marittime messe insieme. Se si aggiungono l'impatto ambientale per la produzione intensiva di cotone e le conseguenze in termini di diritti umani in termini di sfruttamento dei lavoratori del settore moda, mancanza di tutele e inquinamento dell'ambiente circostante in paesi poveri o emergenti, diventa chiaro come il prezzo apparentemente “molto vantaggioso” dei prodotti di fast fashion sia in realtà già stato pagato a monte e nei peggiori dei modi.
Comprare in seconda mano: un segnale concreto di cambiamento
A rendere poi sempre più insostenibile il settore moda low cost così come lo conosciamo ora, è inoltre il velocissimo tasso di ricambio che esso offre e il conseguente spreco di enormi quantità di abiti: secondo i dati della Fondazione Ellen MacArthur, solo l'1% dei vestiti usati nel mondo è oggi riciclato e ogni anno si perde all'incirca un valore di 55 miliardi di dollari in abiti che, pur essendo stati usati poco, non vengono né donati né riciclati e finiscono quindi in discarica. È questo il circolo vizioso (e dannoso) su cui il Second Hand September cerca di sensibilizzare. In che modo? Promuovendo la scelta di consumi di seconda mano e offrendo così a beni non deperibili e ancora in buono stato una seconda vita, che a sua volta permette di tagliare alla base i costi produttivi di altri abiti nuovi.
Fortunatamente la sensibilità sul tema è oggi in crescita e si moltiplicano le possibilità per comprare second hand, per scambiarsi i vestiti che non si usano più o per donarli a chi potrebbe usarli più volentieri: accanto ad applicazioni di tendenza come Vinted, si diffondono iniziative come gli “swap party” (occasioni di scambio di beni non più utilizzati) o i negozi che recuperano, puliscono e rivendono abiti usati, spesso con finalità sociali.
Erica Balduzzi