Viaggio nel mondo della moda usa-e-getta, la seconda industria più inquinante del pianeta dopo quella petrolifera. Ma qualcosa inizia a cambiare
3800 litri. Tanta è l'acqua necessaria per produrre un singolo paio di jeans. E nel mondo, oggi, si producono oltre 3 miliardi e mezzo di jeans ogni anno. Basterebbe forse questo dato a raccontare le ombre della cosiddetta fast fashion, la moda a consumo rapido e basso costo che ormai caratterizza l'intera filiera tessile, imperniata principalmente su due cardini: il costante rinnovamento delle collezioni (passando da due collezioni l'anno a una collezione nuova a settimana, per un totale di 52 micro-collezioni in un solo anno!) e il progressivo abbassamento del prezzo del prodotto finito, grazie a un mix di qualità scadente dei materiali e filiera di produzione opaca che porta, inevitabilmente, all'assunto “è più conveniente comprare di nuovo, che rammendare e riutilizzare”.
Nel corso di pochi anni questo trend ha innescato su scala globale un pericoloso circolo vizioso: aumentano le produzioni, aumentano i consumi, aumentano anche gli sprechi. Si abbassa il prezzo, quindi la qualità, a discapito dei due anelli deboli della catena: l'ambiente che ne fa le spese e i lavoratori che la producono, manodopera facilmente sfruttabile in nome di un ennesimo “maglioncino in offerta” o di un nuovo modello di jeans.
Oggi, infatti, l'industria della moda è considerata la più impattante al mondo, dopo quella petrolifera. È una di quelle che - durante tutta la filiera di produzione, lavorazione e confezionamento - consuma e sporca più acqua in assoluto, rilascia più anidride carbonica nell'atmosfera e produce quotidianamente un enorme ammontare di rifiuti.
L'impatto della fast fashion tocca aria, acqua, suolo e società: i report delle principali organizzazioni umanitarie mondiali hanno evidenziato come la filiera tessile e fashion sia costruita prevalentemente sulle dita insanguinate e sui diritti violati di schiere di lavoratori e lavoratrici nel sud del mondo e favorisca veri e propri sistemi di schiavitù moderna.
Sporca, assetata, inquinante
Il primo a fare le spese della voracità della della fast fashion è l'ambiente. Secondo i dati 2019 dell'UN Environment Programme, l'industria della moda è infatti responsabile del 20% del consumo mondiale di acqua e del 10% delle emissioni globali di anidride carbonica (più di tutte le rotte marittime e aeree mondiali) e le stoffe sintetiche hanno finora rilasciato negli oceani oltre 1,4 milioni di miliardi di fibre plastiche (mezzo milione di tonnellate di plastica sono riversate in acqua ogni anno soltanto attraverso il lavaggio dei capi sintetici, tra cui poliestere, acrilico e nylon).
L'utilizzo di sostanze chimiche tossiche e pericolose per uomo e ambiente è riscontrato in ogni passaggio della catena produttiva tessile: il 25% dei pesticidi mondiali e l'11% degli insetticidi sono utilizzati nelle piantagioni intensive di cotone per la produzione low cost, ogni anno l'industria della moda utilizza oltre 9 miliardi di chili di componenti chimici (tra cui mercurio e piombo) per finalizzare i suoi prodotti e le tinture sintetiche delle stoffe sono le seconde maggiori inquinanti delle acque su scala globale, dopo l'agricoltura. Per non parlare dell'impatto dei consumi su scarti e smaltimento: sempre secondo l'UN Environment Programme, infatti, un consumatore medio compra oggi il 60% di abiti in più rispetto a quanto faceva 15 anni fa e ogni prodotto dura e viene usato meno della metà rispetto al passato. Il risultato?
Enormi quantità di rifiuti, pari a un camion della spazzatura di materia tessile bruciata o buttata ogni secondo: oggi solo il 15% di tutta la produzione fashion mondiale viene riciclata o riutilizzata. In altre parole, la stragrande maggioranza di ciò che oggi vediamo nelle vetrine domani finisce in discarica, con i relativi tempi e rischi di decomposizione: il poliestere, fibra artificiale derivata dal petrolio la cui domanda ha superato quella del cotone in virtù dei bassi costi di produzione, impiega ad esempio 200 anni per biodegradarsi.
Schiavitù moderne
Accanto alle problematiche ambientali connesse al mondo della fashion industry, ci sono poi quelle sociali e umanitarie. Ad accendere i riflettori mondiali sulle contraddizioni umanitarie della moda usa-e-getta è stata nel 2013 la tragedia del Rana Plaza, in Bangladesh.
Il 24 aprile l'edificio di otto piani a Dacca crollò su se stesso a causa di un cedimento strutturale, provocando 1129 vittime e oltre 2mila feriti e configurandosi come il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile nella storia: la struttura, infatti, ospitava una serie di fabbriche di abbigliamento, che realizzavano abiti e accessori anche per noti marchi di abbigliamento “low price”, tra cui Benetton, Camaieau, Zara, Berhska, Oysho, Stradivarius, Mango, Primark e Walmart.
L'incidente ha contribuito ad aprire una crepa nel muro di silenzi che circondavano la fast fashion, mostrando al mondo in modo chiaro e inequivocabile le condizioni di lavoro di donne, uomini e bambini nella filiera tessile nel sud del mondo: accanto al Rana Plaza, infatti, sono numerosissime nei paesi più poveri le realtà che impiegano per conto dei brand fast fashion lavoratori e lavoratrici senza tutele, per stipendi mensili miseri, spesso a contatto con materie e prodotti chimici dannosi per l'organismo oltre che per l'ambiente, costretti in quella che viene definita una delle principali forme di schiavitù moderna. Sarebbero oltre 40 milioni le persone coinvolte in questa filiera, di cui l'85% donne, mentre un bambino su dieci nel mondo sarebbe impiegato nel lavoro minorile dell'industria tessile.
Qualcosa inizia a cambiare
Il panorama è cupo, ma non mancano i segni di speranza. Da un lato, infatti, l'emergere delle problematiche intrinseche al “modello fast fashion” ha portato diverse aziende a ripensarsi e a ripensare i propri processi produttivi e la propria mission, a investire in innovazione e a proporre alternative tessili valide e sostenibili.
Dall'altro, la crescente sensibilità alle tematiche green degli ultimi anni – potenziata nel 2019 dai movimenti come Fridays For Future e dalle previsioni fosche degli scienziati in materia di clima e ambiente – ha investito anche la sfera della moda e del tessile, indirizzando i consumi di sempre più persone verso quei brand e quelle realtà che hanno fatto una precisa scelta di campo.
Come a dire, il sostenibile in fin dei conti conviene, anche se si parla di abbigliamento. Alcuni esempi? Patagonia - il noto marchio di abbigliamento tecnico e sportivo - dal 1993 produce indumenti utilizzando materie plastiche ricavate dalle bottiglie riciclate, mentre la spagnola Ecoalf realizza scarpe, vestiti e borse a partire dalle alghe e dalla plastica riciclata, raccolta dal mare in 33 diversi porti spagnoli. Ancora, la statunitense ColorZen ha brevettato un trattamento sul cotone che favorisce la polarizzazione del materiale e facilita la presa del colore, permettendo una riduzione del consumo di acqua in fase di tintura pari al 90%.
Non mancano anche esperienze in Italia, come Wrad (start up innovativa fondata nel 2015, il cui prodotto Graphi-Tee realizzato riciclando polvere di grafite ha vinto il “Best of the Best Product Design RedDot Design Award”) oppure Rifò, progetto pratese di moda circolare che lavora sulla rigenerazione dei vecchi tessuti per proporre nuove collezioni, evitando gli sprechi e favorendo la circolarità della materia tessile.
Erica Balduzzi
Alcuni consigli per un approccio etico alla moda
- Acquistare meno: in media, una persona indossa soltanto il 20% del suo guardaroba;
- Privilegiare marchi e brand etici e sostenibili, attenti all'ambiente e alle condizioni di lavoro in fase di produzione;
- Acquistare usato e valorizzare il second hand: si evitano sprechi di acqua, si riduce lo scarto tessile da smaltire e si potenzia la circolarità di capi ancora in buono stato;
- Lavare consapevolmente: evitare lavatrici a mezzo carico e lavaggi inutili, utilizzare detergenti ecologici, preferire quando possibile l'acqua fredda;
- Scegliere capi di fibre naturali e tinti in maniera ecologica: oltre a non danneggiare l'ambiente, sono anche più salutari per la pelle!