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L'Amazzonia in fiamme. Bolsonaro vuole “aprire la foresta”

L'Amazzonia in fiamme

l Sinodo dei Vescovi prova a resistere in nome della Laudato Sì. La guerra contro l'Amazzonia è una guerra contro l'umanità intera

Ogni anno un pezzo di foresta amazzonica va letteralmente in fumo. L'Amazzonia continua a essere cancellata a un ritmo allarmante, incentivato principalmente dall’espansione agricola e dalla domanda crescente di carne bovina, olio di palma, soia, ma anche biocombustibili, legname e minerali preziosi. Nei primi otto mesi dell'anno sono stati disboscati 6.400 km² di foresta (il 92% in più rispetto al 2018) e il ritmo è triplicato nel solo mese di agosto.

I dati arrivano dall'Istituto nazionale di ricerca spaziale, Inpe, che dal 1988 utilizza le immagini satellitari per monitorare la deforestazione. Quando, nel 2004, il governo federale lanciò il piano di prevenzione e controllo della deforestazione, il tasso di deforestazione annua sfiorava i 28 mila km², una superficie superiore a quella della Lombardia. Oggi le pressioni delle compagnie agricole - legittimate dall’amministrazione nazionalista e conservatrice del Presidente Bolsonaro - stanno rendendo vani tutti i progressi compiuti da allora. Il tasso di deforestazione è tornato a crescere e le immagini satellitari confermano l'aumento del numero e dell’intensità degli incendi. 

Aprire la foresta

Il 10 agosto è stato ribattezzato “o dia do fogo”, il giorno del fuoco. In una sola giornata sono stati appiccati centinaia di roghi e i responsabili sarebbero noti. È così, infatti, che gli imprenditori agricoli, i fazenderos, intendono supportare la politica del presidente Bolsonaro, che ha sempre sostenuto l'urgenza di “aprire” la foresta, riprendendo il termine utilizzato durante la dittatura militare.

Aprire la foresta significa entrare in territori vergini, aree protette, riserve indigene, aree affidate a comunità di raccoglitori di gomma naturale, i seringueiros, o a piccoli agricoltori sostenibili. Si tratta delle cosiddette riserve estrattive: in Brasile quelle istituite dal governo sono più di 50. In queste aree protette la preservazione dell’ecosistema è affidata alle popolazioni locali e al loro modello di economia sostenibile. Una conquista che si deve al movimento dei seringueiros che, negli anni '80, sotto la guida di Chico Mendes, si sono battuti per affermare un modello di sviluppo che garantisse la sopravvivenza loro e della foresta.

Ma per Bolsonaro l’Amazzonia non è un patrimonio dell’umanità e non è nemmeno il polmone del mondo: appartiene al Brasile, che ne può fare quello che vuole. Anche campi di soia, in nome dell'autodeterminazione e della libertà politica ed economica.

Una guerra di conquista e resistenza che dura da decenni

L'idea predominante nel Brasile di oggi è quella di “integrare l'Amazzonia alla nazione” e per fare questo è in corso una vera e propria guerra di conquista. I numeri parlano chiaro. Dal 1985 la Commissione Pastorale della Terra - organo creato negli anni '70 dalla Chiesa cattolica per supportare i movimenti per la terra, i loro diritti e lo sviluppo sostenibile - compila un elenco annuo dei conflitti e delle vittime per la terra.

Nel 2018 ha registrato 71 omicidi, il numero più alto degli ultimi 15 anni. Le vittime sono leader indigeni o sindacalisti rurali, ma anche membri del Funai, Fondazione nazionale dell’indio, prontamente smantellato dal presidente in carica. Così, se è vero che in passato la Chiesa è stata complice dei colonizzatori, è anche vero che «alcune delle prime voci che in Europa si sono levate a sostegno dei diritti degli indigeni, erano membri del suo clero», ha dichiarato Francesca Casella, direttrice del movimento per i popoli indigeni Survival International Italia. «Nel corso delle ultime generazioni, la sua ala progressista ha svolto una funzione cruciale, spesso l’unica, nel perseguire la giustizia sociale nell’America Latina, schierandosi con i diseredati e i perseguitati, e molti del suo clero, incluso il clero indigeno, sono stati assassinati per questo loro impegno». 

Il Sinodo per l'Amazzonia

L’Amazzonia è «il cuore della nostra casa comune, è l’opera straordinaria di Dio ferita dall’avidità umana e dal consumo fine a se stesso e che non possiamo continuare a ignorare. Con la ricchezza della sua biodiversità, multi-etnica, pluriculturale e pluri-religiosa, l’Amazzonia è uno specchio di tutta l’umanità che esige cambiamenti strutturali e personali di tutti gli esseri umani, degli Stati e della Chiesa perché la difesa della madre terra non ha altra finalità che non sia la difesa della vita». Sono queste le parole con cui Papa Francesco ha dato inizio al Sinodo sull'Amazzonia, dal titolo “Amazzonia: nuovi cammini per la chiesa e per una ecologia integrale”, che dal 6 al 27 ottobre ha visto riuniti a Roma vescovi da ogni parte del modo e che ha avuto come tema proprio la foresta più grande del mondo e la necessità di tutelarla.

L'Amazzonia quindi come paradigma della cultura del consumo che trasforma la Terra in una risorsa da sfruttare, l’emblema di un’economia che uccide e impone nuovi colonialismi ideologici mascherati dal mito del progresso, che distruggono l’ambiente e i popoli. 

Il Sinodo è stato preceduto da due anni di mobilitazioni della Chiesa cattolica nella regione Amazzonica. Un percorso che ha coinvolto comunità locali e mondo ecclesiastico ed è riassunto in un documento di lavoro dove i vescovi denunciano la distruzione e lo sfruttamento ambientale, la negazione del diritto alla terra e all'autodeterminazione dei popoli, la criminalizzazione e l'assassinio dei leader locali, l'appropriazione e la privatizzazione dei beni naturali, l'inquinamento, il narcotraffico.

Ascoltare il «grido di schiavitù» della natura e al tempo stesso quello dei suoi popoli minacciati che sale da questa immensa regione non può quindi che interessare anche la missione della Chiesa, come già annunciato nell'enciclica Laudato Si’ del 2015, dove papa Francesco aveva lanciato il suo appello per un'ecologia integrale, che sappia ascoltare il grido della terra insieme al grido dei poveri, perché a nulla servirà descrivere i sintomi, se non riconosciamo la radice umana della crisi ecologica. 

Arianna Corti

 

Un po' di Amazzonia nello smartphone

A mettere a rischio la foresta Amazzonica non sono solo la carne che mangiamo e le piantagioni di soia che servono per i mangimi, o l'olio di palma utilizzato praticamente ovunque fino a non molto tempo fa. Gli oltre 120 milioni di apparecchi telefonici che si trovano nelle case degli italiani sono infatti piccole miniere di rame, ferro, argento e oro. Un iPhone 6 contiene almeno 0,014 grammi di oro, che moltiplicati per il miliardo e mezzo di smartphone venduti in tutto il mondo solo nel corso del 2018 arrivano a 335 tonnellate. E la domanda è destinata a crescere.

Secondo uno studio del Centro de Innovación Científica Amazónica del 2018, l’estrazione artigianale di oro condotta da minatori illegali, i garimpeiros, ha sradicato quasi 250mila acri di foresta nella sola regione di Madre de Dios in Perù e in Brasile l’equivalente di un campo da calcio scompare ogni minuto. Scavando in profondità nel terreno, il sottosuolo viene impoverito in modo irrimediabile e il mercurio, usato come amalgama per separare l’oro dagli elementi di scarto, contamina l’approvvigionamento idrico e alimentare dell'intera regione, con effetti devastanti sulle popolazioni esposte

Novembre 2019

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